Dao De Jing

Senza uscire dalla porta di casa puoi conoscere il mondo,
senza guardare dalla finestra puoi scorgere il Dao del cielo.
Più si va lontano, meno si conosce.
Per questo il saggio senza viaggiare conosce,
senza vedere nomina, senza agire compie.
Dao De Jing, Lao Zi

martedì 28 settembre 2010

Ren: il senso di umanità

Un altro termine «reinventato» da Confucio è ren usato nei testi antichi per indicare la magnanimità di un grande personaggio. Il carattere 仁 ren è composto dal radicale «uomo» e dal segno «due» l'uomo cioè diventa tale solo nella relazione con l'altro: ren è quindi «la sollecitudine che gli uomini hanno gli uni per gli altri dato che vivono insieme». Benché Confucio parli costantemente di ren egli si rifiuta di fornirne una definizione esplicita e in quanto tale limitativa: più che un ideale da realizzare si tratta di un polo verso cui tendere all'infinito.

Il Maestro disse: «Non oso certo affermare di avere raggiunto il ren, e tanto meno la saggezza suprema. Tutto ciò che posso dire è che vi tendo con tutta l'anima, senza stancarmi mai di insegnare» (Dialoghi VII,33)
Al tempo stesso, peraltro, egli lo dichiara assai prossimo:

« ren è davvero inaccessibile? Desideralo con fervore, ed eccolo in te» (Dialoghi VII,29)

giovedì 23 settembre 2010

Junzi: l'uomo di valore

Un termine assai frequente nei Dialoghi è junzi - letteralmente: figlio di signore – (nel carattere 君 si possono riconoscere una mano che tiene un pennello e il simbolo della bocca 口: jun è quindi una persona colta che sa parlare e scrivere) che generalmente designa nei testi antichi ogni membro della nobiltà ma che nel linguaggio di Confucio assume un senso nuovo, in quanto la «qualità» dell'uomo nobile non dipende più soltanto dalla nascita, ma dipende soprattutto dal suo valore come essere umano completo. Junzi è dunque «l'uomo di valore» in opposizione allo xiaoren (letteralmente: piccolo uomo) «l'uomo dappoco»

«…l'uomo di valore conosce ciò che è giusto, l'uomo dappoco non conosce che il proprio vantaggio…» (Dialoghi IV,16)

«…l'uomo di valore è imparziale e mira all'universale; l'uomo dappoco, ignorando l'universale, si occupa soltanto di ciò che è parziale…» (Dialoghi II,14)

domenica 19 settembre 2010

Le parole del Maestro Kong

Proprio a partire da queste ultime considerazioni, proviamo ad analizzare il pensiero di Confucio in un modo insolito: dalla analisi delle sue «parole» cerchiamo di identificare la sua visione del mondo:

Xue: l'apprendimento

Nei Dialoghi per la prima volta nella storia cinese si fa sentire la voce di qualcuno che parla «in prima persona»: la parola di Confucio è, da subito incentrata sull'uomo e sua realizzazione. Tre cose risultano essenziali nel suo insegnamento: L'apprendimento, il senso di umanità e lo spirito rituale. Per lui innanzitutto c'è l'apprendimento xue ( nella versione tradizionale, 學è composto dal carattere 子 zi = bambino, sotto un tetto, riceve dei “segni” che gli vengono offerti con le mani) e il ruolo centrale che Confucio vi attribuisce corrisponde alla sua intima convinzione che la natura umana sia perfettibile. Per la prima volta in una cultura aristocratica fortemente strutturata in caste e in clan si ha una integrale considerazione dell'individuo: tale atteggiamento rappresenta una sostanziale scommessa sull'uomo ispirata ad un sostanziale ottimismo. L'apprendimento, dunque, non come un procedimento intellettuale ma come esperienza di vita: l'apprendimento è una esperienza che si pratica, che si condivide con altri, che è fonte di gioia, che trova in se stessa al propria giustificazione.

«…Apprendere qualcosa per applicarlo costantemente nella vita non è forse fonte di grande piacere?» (Dialoghi I,1)

L'apprendimento deve condurre non tanto alla acquisizione di contenuti intellettuali «sapere cosa», quanto allo sviluppo di nuove attitudini di carattere concreto e pratico, cioè «sapere come» (oggi diremmo «know-how»)

Il Maestro disse: «Ti vanti di sapere recitare a memoria le trecento Odi? Ma supponi di essere chiamato ad un incarico di governo e di non esserne all'altezza, o di essere inviato in missione all'estero e di risultare incapace di rispondere di testa tua: a che ti servirà allora tutta la tua erudizione?» (Dialoghi XIII,5)

La finalità pratica della educazione consiste nella formazione di un uomo capace di servire la comunità sul piano politico e di diventare un «uomo di valore» sul piano morale: la responsabilità dunque dei membri della elite colta è precisamente quella di governare gli altri per il loro maggior bene. In tal modo si delinea da subito il destino «politico» dell'uomo colto che, invece di tenersi in disparte per meglio assolvere ad un ruolo di coscienza critica, avverte invece la responsabilità di impegnarsi nel processo volto ad armonizzare la società.

giovedì 16 settembre 2010

Il problema della lingua

Sia gli scritti confuciani che quelli taoisti sono scritti nello stile compatto e suggestivo che è tipico del modello di pensare cinese: i cinesi non erano portati al pensiero logico astratto e produssero una lingua molto diversa da quella occidentale. Questo aspetto va forse posto in relazione con la scrittura, che è assai particolare e radicalmente diversa dai sistemi di notazione fonetica propri dei linguaggi alfabetici europei. Lungi dall'essere un concatenamento di elementi fonetici in sé privi di significato, ognuno di essi costituisce un'entità che comporta un senso. Poiché i filosofi cinesi si espressero in una lingua tanto adatta al loro modo di pensare, i loro scritti e le loro massime potevano essere brevi e non ben articolati e tuttavia ricchi di immagini suggestive. E’ evidente che molte di queste immagini si perdono nella traduzione in una lingua occidentale.

Ad esempio, il famoso carattere Dao, 道 risulta composto da 辶 che significa «camminare» e da 首che significa «testa». La «Via» rappresenta dunque un «camminare con la testa» , «muoversi con coscienza»

道 =辶 + 首
La scrittura cinese sembra astrusa per noi occidentali, ma in realtà anche noi usiamo tantissimo gli ideogrammi: pensate ai segnali stradali o alla segnaletica negli aeroporti, ai simboli astrologici, meteorologici, matematici, chimici, religiosi, politici, etc. Molti sono chiari ed inequivocabili, altri sono passibili di più interpretazioni e aiutano la nostra mente a rendersi attenta, a cercare dentro di essi i tanti possibili significati, le realtà a cui rimandano.
Gli ideogrammi hanno il vantaggio della immediatezza, della concisione grafica, della universalità: A titolo di provocazione, provate a leggere la seguente storiella… per capirla non serve vocabolario, ognuno la pronuncia nella propria lingua, ma tutti ne capiscono il senso!

Il cinese è l'esempio più puro di lingua "isolante" una lingua, cioè, in cui ogni parola consiste di uno ed un solo morfema. L'italiano invece, (come l'arabo, l'ebraico e in generale tutte le lingue indoeuropee) ricade nella categoria delle lingue "flessive": in queste lingue la parola e' formata da una radice lessicale (più o meno modificabile), alla quale si aggiungono affissi che realizzano in uno o più morfemi diverse informazioni o funzioni grammaticali. In italiano i morfemi sono generalmente legati, cioè non sopravvivono da soli come parole, ma per formare parole vengono combinate delle basi con dei prefissi o dei suffissi.

Basi: modern-, scriv-, pens-, vinc-
prefissi: in-, ri-, dis-
suffissi: -mente, -tore, -zione, -bile, -izza

Le parole vengono create seguendo le cosiddette regole morfologiche, tipo:

In + A = A "non A" (in-capace, in-abile, in-comprensibile)
ri + V = V "V di nuovo" (ri-costruire, ri-fare, ri-nascere)
dis + V = V "rendere negativo" (dis-fare, dis-educare, dis-conoscere)
A + izza- = V "rendere A" (modern-izza-re, razional-izza-re)
V + -tore = N "colui che V" (mangia-tore, bevi-tore, gioca-tore).

Per misurare in che misura una lingua sia isolante, si utilizza il cosiddetto indice di sintesi, cioè si misura il numero medio di morfemi per parola. Quanto più questo numero è vicino a 1, tanto più la lingua si avvicina al tipo isolante.

Nel cinese, infatti, parola, morfema ma anche carattere coincidono.

Nella lingua cinese ogni unità lessicale è invariabile e rimane identica qualunque sia la posizione grammaticale che assume. Ma vediamo telegraficamente le maggiori peculiarità della lingua cinese:

1) Il sostantivo non ha né numero né genere
2) L'aggettivo, usato come attributo, precede sempre il sostantivo, altrimenti diventa un predicato nominale (aggettivo attributivo)
3) L'articolo non esiste.
4) Il pronome personale rimane immutato nelle sue varie funzioni, cioè 我 wǒ traduce «io, me, mi» 你 nǐ traduce «tu, te, ti»
5) Per il sostantivo e l'aggettivo non esiste concordanza in genere e numero.

他 是 工人, 她 是 工人, 他们 都 是 工人
tā shì gōngrén tā shì gōngrén tāmen dōu shì gōngrén
lui essere operaio, lei essere operaio, loro tutti essere operaiolui e' un operaio, lei e' un'operaia, sono tutti operai

6) Le forme verbali sono invariabili e non contengono indicazioni di tempo e di modo

今天 我 没 出去, 明天 出去。
jīntiān wǒ méi chūqù míngtiān chūqù
oggi io non uscire, domani uscireoggi non esco, uscirò domani

Il periodo viene costruito combinando i morfemi in unità via via più ampie fino a formare le diverse frasi. Le frasi sono in grado di esprimere un significato compiuto solo in virtù del fatto che i loro costituenti sono organizzati secondo un preciso sistema di regole, che costituisce appunto il sistema grammaticale.

In cinese, informazioni quali numero, genere, tempi e modi tendono ad essere fornite solo in caso di reale necessità, qualora il contesto non sia di per sé sufficiente a renderle implicitamente chiare. Il contesto gioca quindi un ruolo decisivo nel determinare la forma e la completezza grammaticale di una frase e si rivela una chiave importante per l'interpretazione semantica. Una frase estrapolata dal suo contesto, può perdere non solo significato ma anche accettabilità grammaticale.

去 家
qù jiā
andare casa = detto così ‘ ambiguo: potrebbe essere «vai a casa» o «andiamo a casa». Però:

我 去 家
Wǒ qù jiā
io andare casa = io vado a casa

我 昨 天 去 家
wǒ zuótiān qù jiā
io ieri andare casa = ieri sono andato a casa (un avverbio chiarisce il tempo del verbo)

我 门 昨 天 去 家, 明 天 来。
Wǒ mén zuótiān qù jiā , míngtiān lái
Io-plurale ieri andare casa, domani tornare = ieri siamo andati a casa, torniamo domani.

Non si ha quindi una struttura di base, del tipo soggetto/predicato, che tenda a dire qualcosa a proposito di qualcosa e che ponga implicitamente la questione di sapere se la proposizione sia vera o falsa. In confronto alle lingue indo-europee, uno degli aspetti più vistosi è l'assenza, nel cinese antico, del verbo «essere» come predicato, poiché l'identità è indicate come semplice giustapposizione.

Da quanto visto può sembrare essere precisi in cinese o fare quelle distinzioni chiare che sono necessarie per una analisi scientifica o filosofica. Il bello è che il cinese ha il vantaggio di riuscire a dire molte cose allo stesso tempo e significarle tutte, ragion per cui, ad esempio, ci sono almeno settanta traduzioni diverse del Lao Zi!
Giusto per fare un piccolo esempio, prendiamo l’esordio del Lao Zi:

道 可 道 非 常 道
dào kě dào fēi cháng dào

道 dào è la Via, ma come abbiamo visto, può significare anche «camminare» o «parlare»
可 kě significa «essere degno di, meritare»
非 fēi significa «non è, non è uguale a»
常 cháng ha diversi significati: «comune, ordinario, normale», ma anche «costante, invariabile»

Per cui alcuni traducono: «La Via veramente Via non è una via costante» l’interpretazione è: la caratteristica di una via comune è di essere immutabile, costante. Ma la Via di cui si tratta qui è caratterizzata dalla idea opposta: questa Via è caratterizzata dalla mutevolezza, quindi una visione paradossale.

Altri intendono: «La Via che può essere seguita non è la via eterna» l’interpretazione, in questo caso è: C’è una Via eterna, immutabile, ed una via fenomenica, la sola di cui si può parlare

Altri ancora, sostenendo che dao può significare anche «dire, parlare», traducono: « La vera Via non è quella di cui comunemente si parla, cioè la Via è ineffabile»
La verità è che, come del resto per tantissimi altri testi antichi, noi non riusciremo mai a rendere in modo scientificamente esatto quello che stava nella mente degli autori: quello che conta, tuttavia, riconosciuto lo sforzo scientifico dei traduttori, è se quello che ci arriva è capace di dare un messaggio valido ai tempi nostri.

martedì 14 settembre 2010

Zhuang Zi, Il Maestro Zhuang

La tradizione ha fatto di Zhuang Zi 庄子 il secondo maestro taoista dopo Lao Zi, Peraltro una lettura attenta dei testi induce a rimettere in discussione la sequenza tradizionale invertendone l’ordine e collocando la composizione del Zhuang Zi (l’opera attribuita al maestro) nel IV sec., prima di quella del Lao Zi databile all’ inizio del III sec. Occorre inoltre precisare che i due nomi, che oggi vengono sempre citati assieme, non furono associati prima dell’ età imperiale: fu infatti solo nel II sec., all’epoca Han, nel II° sec. a.C. che apparve l’etichetta di «scuola taoista» 道家 (dao jia) nella classificazione delle sei grandi scuole di pensiero degli Stati Combattenti operata da Sima Qian nelle Memorie di uno storico (shi ji).
Il Zhuang Zi, come testo, è steso in una prosa esuberante, di alta qualità letteraria e poetica: in confronto all’anonimo Lao Zi, il Zhuang Zi appare come una vera e propria opera di autore dal tono marcatamente personale. Tuttavia esso rimane comunque una miscellanea di scritti rappresentativi di correnti alquanto diverse, scritti in periodi diversi, di cui solo una parte viene attribuita a Zhuang Zi. A differenza di Lao Zi, Zhuang Zi è un personaggio di cui almeno è certa l’esistenza, anche se si sa molto poco su di lui. Il suo nome personale era Zhou e sarebbe stato originario dell’area meridionale di Chu, vissuto tra la fine del IV e l’inizio del III sec a.C. Dopo aver occupato un posto amministrativo subalterno, si sarebbe deliberatamente ritirato dal mondo, offrendo di se stesso l’immagine di un personaggio eccentrico che costituisce l’oggetto di numerosi aneddoti.

lunedì 13 settembre 2010

Lao Zi, Il Vecchio Maestro

Secondo la leggenda che fa di lui un contemporaneo di Confucio, vissuto nel VI-V secolo a.C., sarebbe Lao Zi ( 老子) ad aprire la «via taoista». Tuttavia esistono a livello scientifico dei dubbi sulla reale esistenza storica di Lao Zi. La tradizione vuole che in un momento di innumerevoli e sanguinose guerre tra i diversi regni e feudi in cui il territorio cinese si componeva, Lao Zi sviluppasse una dottrina mirante ad arrestare le guerre che imperversavano. Questa dottrina, il taoismo, cercò di stimolare un equilibrio nella società facendo riferimento ad una forza che plasma, circonda e fluisce sempre tra tutte le cose. Sempre secondo la leggenda, Lao Zi, demoralizzato per il declino dei Zhou, sarebbe partito per dirigersi ad ovest. Quando giunse all’ultimo passo prima della steppa, il guardiano del passo gli disse: «Dato che state per ritirarvi dal mondo, vi prego di voler comporre un libro per me». Lassù Lao Zi scrisse le cinquemila parole del Dao De Jing (IL Classico della Via e della Virtù), poi se ne andò e nessuno seppe dove morì. Il Dao De Jing (detto anche Lao Zi) si presenta in una forma completamente differente da tutte le opere che l’hanno preceduta: invece di una esposizione didattica sotto forme di domande e risposte, alla maniera dei Dialoghi, si ha qui una serie di versi ritmati e rimati, di estrema concisione e connotati da uno stile un po’ esoterico. Il contenuto si astiene deliberatamente da ogni riferimento a luoghi, eventi, personaggi, che consentano una datazione dell’ opera: di qui il numero impressionante di interpretazioni e traduzioni esistenti.

domenica 12 settembre 2010

Kong Zi, il maestro Kong

Confucio non rappresenta soltanto un uomo o un pensatore, o una scuola di pensiero, ma un vero e proprio fenomeno culturale che si fonde con il destino di tutta la civiltà cinese. Tale fenomeno, comparso nel V secolo prima della nostra era, è durato per 2.500 anni e perdura ancora oggi, dopo aver superato molteplici trasformazioni ed essere sopravvissuto a parecchie vicissitudini.

Se Confucio è divenuto una figura della cultura universale allo stesso titolo di Buddha, Socrate, Cristo o Marx è perché con lui si produce in Cina un «salto di qualità» nella riflessione dell'uomo sull'uomo. Dopo Confucio non sarà più possibile in Cina pensare altrimenti che situandosi in rapporto a tale figura fondatrice.

Confucio è la latinizzazione operata dai gesuiti missionari (Confutius) del nome cinese Kong Fu Zi (Maestro Kong). Le notizie biografiche che possediamo sono scarse e di molto posteriori alla sua morte: secondo la tradizione, Confucio nacque nel 551 a.C. e morì nel 479, all'età di settantadue anni. Era originario del piccolo principato di Lu (attualmente lo Shandong, provincia costiera a sud di Pechino). Apparentemente di discendenza aristocratica, Confucio stesso fa allusione nei Dialoghi ad una giovinezza di condizioni modeste. Per le sue origini sociali, Confucio è rappresentativo di un ceto in ascesa, intermedio tra la nobiltà guerriera e il popolo dei contadini e degli artigiani: si tratta del ceto degli shi che, in virtù delle loro competenze in ambiti diversi e segnatamente nel campo culturale, finiranno per formare la nota categoria dei letterati-funzionari della Cina imperiale.

Confucio fu impegnato fin da giovane nella vita politica di Lu, e dopo aver ricoperto incarichi amministrativi subalterni divenne infine ministro della giustizia. La leggenda vuole che abbia poi lasciato il paese natale per protestare verso il malgoverno del suo sovrano: sta di fatto che verso la cinquantina egli rinuncia alla carriera politica. Deluso dal sovrano del suo paese tenta in seguito di offrire i propri servigi e i suoi consigli ad altri, pare senza grande successo.
Dopo i sessant'anni se ne torna a Lu, dove trascorre gli ultimi anni della sua vita ad insegnare a discepoli sempre più numerosi. E' in questo periodo che, secondo la tradizione, avrebbe composto (o quanto meno riordinato) i testi che gli sono attribuiti.

La formazione dei testi canonici è indissociabile dal nome di Confucio, pur se determinate tradizioni ne fanno risalire l'origine ad altre figure mitiche del periodo di fondazione della dinastia Zhou, come il Re Wen ed il Duca di Zhou. Nei Dialoghi Confucio ricorre a delle citazioni ed opera un uso didattico di un certo numero di testi, che egli stesso dichiara di avere modificato, rimaneggiato ed anche emendato. Due libri risultano da lui citati con maggiore frequenza ed occupano un posto privilegiato fra i Cinque Classici 五经 wu jing catalogati all'inizio dell'epoca Han (II° sec a.C.): si tratta dei Documenti e delle Odi . Nel II° sec a.C. allorché si apre con la dinastia Han l'epoca imperiale, il primo grande storico cinese Sima Qian così descrive i Classici:

«Il Classico dei Mutamenti (yi jing) che tratta del Cielo e della terra, dello Yin e dello Yang,
delle Quattro Stagioni e dei Cinque Elementi è lo studio del divenire per eccellenza;
Le Memorie sui Riti (li ji) che definiscono i rapporti tra gli uomini, sono lo studio della condotta;
Il Classico dei Documenti (shu jing), che ci tramanda le gesta dei re dell'antichità, è lo studio della politica;
Il Classico delle Odi, (shi jing) che canta monti e fiumi, vallate e burroni, alberi ed erbe, animali ed uccelli, maschi e femmine, è l'espressione per eccellenza della poesia;
Gli Annali delle Primavere ed Autunni, (chun qin) che distinguono il giusto dall'ingiusto, sono lo studio del governo dell'umanità.»

E' molto più probabile che tali testi già esistessero all'epoca di Confucio, che se ne è servito nel suo insegnamento e, ciò facendo, li ha indubbiamente rimaneggiati e reinterpretati alla sua maniera in una ottica etica e pedagogica.

I testi definitivi dei «Cinque Classici» vennero stabiliti successivamente, negli anni 172-178 d.C. sotto l’imperatore Ling della dinastia Han. Dall’epoca della dinastia Song (581-618) le opere confuciane costituirono il programma ufficiale che i candidati dovevano studiare per sostenere gli esami di stato: in Cina attraverso questi esami si accedeva a tutti i livelli della carriera politica ed amministrativa.

A partire dal X secolo, ai cinque classici venne aggiunta un’altra collezione, detta dei «Quattro Libri», che comprende tre opere di Confucio ed una del filosofo Meng Zi (o Mencio): in particolare

1) Lun Yu (I Dialoghi)
2) Zhong Yong (Il Giusto Mezzo)
3) Da Xue (Il Grande Studio)
4) Meng Zi (Il maestro Mencio)

venerdì 10 settembre 2010

I limiti del linguaggio

Un’ altro ostacolo fondamentale alla conoscenza è il linguaggio: l’imprecisione e l’ambiguità del nostro linguaggio sono indispensabili per i poeti i quali lavorano molto per associazioni, utilizzando i diversi strati subconsci del linguaggio stesso. La scienza mira invece a definizioni chiare e a relazioni prive di ambiguità: ecco quindi il linguaggio matematico come forma più alta di rigore e di logica. Il metodo scientifico dell’astrazione è molto efficace e potente ma comporta un prezzo da pagare: via via che definiamo con maggiore precisione il nostro sistema di concetti esso si distacca sempre più dal mondo reale. Basta pensare alle complesse teorie fisiche moderne, la relatività, i quanti e alla estrema complicazione degli esperimenti nel mondo subatomico…chi mai di noi, poveri mortali, potrà mai avere una idea concreta di cosa è un orbitale di probabilità o di quanto grande sia un neutrino? E’ così che per integrare i modelli matematici dobbiamo usare i modelli verbali, con tutte le loro imprecisioni ed ambiguità… un circolo vizioso!

La conoscenza razionale costituisce certamente la parte più importante della ricerca scientifica, ma non la comprende tutta quanta: la componente razionale della ricerca sarebbe inutile se non fosse completata dall’intuito, che rende creativi gli scienziati fornendo loro nuove visioni. Queste visioni tendono a manifestarsi improvvisamente, e tipicamente quando non si è seduti al tavolo di lavoro, ma quando ci si rilassa nel bagno o distesi sulla spiaggia o a spasso nei boschi.

Nella nostra vita quotidiana le visioni intuitive sono normalmente limitate ad istanti estremamente brevi: non è così nel misticismo orientale nel quale esse tendono a diventare uno stato di consapevolezza continuo. La preparazione della mente a questo stato di consapevolezza è lo scopo principale di tutte le scuole mistiche orientali: a tale scopo sono state sviluppate tantissime tecniche di tipo meditativo, il cui obiettivo è quello di far tacere la mente pensante e di spostare quindi la consapevolezza dall’area razionale a quella intuitiva.

Come uscirne?

Rimane il fatto che anche l’esperienza diretta intuitiva della realtà non può essere descritta verbalmente, essendo il nostro linguaggio sostanzialmente limitato: c’è da dire che i mistici, a differenza dei fisici, sono interessati principalmente a «fare» esperienza della realtà e non a «descrivere» questa esperienza. D’altro canto, se desiderano comunicare la loro esperienza, si trovano di fronte alle limitazioni del linguaggio. Per risolvere questo problema sono state individuate diverse strade: il misticismo indiano presenta le sue affermazioni sotto forma di miti, servendosi di metafore, di simboli, di immagini poetiche, di similitudini, di allegorie. Il linguaggio mitico è molto meno condizionato dalla logica o dal senso comune: è pieno di situazioni magiche e suggestive, non è mai preciso. I mistici cinesi e giapponesi hanno trovato un modo diverso per affrontare il problema del linguaggio: invece del mito si servono del paradosso, proprio per mettere in luce le incongruenze che nascono nella comunicazione verbale.

giovedì 9 settembre 2010

I limiti della razionalità

La conoscenza razionale appartiene al campo dell’intelletto, la cui funzione è discriminare, dividere, confrontare, misurare ed ordinare in categorie. L’astrazione è una caratteristica tipica di questa conoscenza, perché per poter analizzare l’immensa varietà di forme e fenomeni non possiamo prendere in considerazione tutti gli aspetti ma se ne devono scegliere solo alcuni significativi. La conoscenza razionale è pertanto un sistema di concetti astratti e simboli, caratterizzati dalla struttura lineare e sequenziale tipica del nostro modo di pensare e parlare. Nella maggior parte dei linguaggi questa struttura lineare è resa esplicita dall’uso di alfabeti che servono a comunicare esperienze e riflessioni con lunghe file di lettere.

Il mondo naturale, d’altra parte, ha una varietà e complessità infinita, nel quale le cose non avvengono in successione ma tutte contemporaneamente: è chiaro che il nostro sistema astratto di pensiero concettuale non potrà mai descrivere o comprendere questa realtà nella sua complessità: tutta la conoscenza razionale è necessariamente limitata.

Poiché la nostra rappresentazione della realtà è molto più facile da afferrare che non tutta la realtà stessa, noi tendiamo a confondere le due cose e a prendere i nostri concetti e i nostri simboli come se fossero la realtà.

Uno dei principale compiti del misticismo orientale è di liberarci da questa confusione: essi ritengono che la realtà ultima non può mai essere oggetto di ragionamento o di conoscenza dimostrabile, né può essere descritta adeguatamente con le parole. La conoscenza assoluta è quindi una esperienza della realtà totalmente non intellettuale, una esperienza che nasce da uno stato di coscienza non ordinario, che può essere chiamato mistico o meditativo.

lunedì 6 settembre 2010

Razionalità o intuito?

Nel pensiero cinese prevale la riflessione in rapporto all'azione piuttosto che in rapporto alla conoscenza in sé. In questo ambito, predominano due grandi orientamenti: l'uno consiste nell'assegnare l'azione come orizzonte alla conoscenza, l'altro nel negare ogni validità al rapporto fra conoscenza ed azione.

Sapere «cosa» o sapere «come»?
Il primo orientamento, rappresentato dalla tradizione confuciana, è interessato al passaggio effettivo tra conoscenza ed azione, inteso, alla maniera cinese, come rapporto tra il latente e la sua manifestazione visibile. Piuttosto che un «sapere cosa», e cioè la ricerca della verità, la conoscenza è soprattutto un «sapere come» e cioè la ricerca del come ordinare e dirigere la propria vita nell'ambito di uno spazio sociale. Il secondo orientamento, rappresentato dalla tradizione taoista, privilegia l'«a monte» del visibile. Il primo porta ad una visione di tipo «politico», nel senso di un ordinamento del mondo secondo la visione umana, mentre il secondo privilegia una visione «artistica», nel senso della partecipazione dell'uomo alla gestazione del mondo.
Nel corso della storia si è constatato che la mente umana è capace di due tipi di conoscenza, quella razionale e quella intuitiva: la prima tradizionalmente associata alla scienza, la seconda alla religione. In occidente si privilegia la razionalità, in oriente l’intuito: «so di non sapere» dice Socrate, mentre Lao Zi dice «somma cosa è sapere di non sapere». Per meglio dire, i cinesi hanno sempre sottolineato la natura complementare dell’intuitivo e del razionale: taoismo e confucianesimo ne sono la dimostrazione.

domenica 5 settembre 2010

Filosofie di "questo" o dell'"altro" mondo?

Il posto occupato dalla filosofia nella civiltà cinese è paragonabile a quello tenuto dalla religione nelle altre civiltà: si è soliti dire che in Cina esistono tre religioni: confucianesimo, taoismo e buddhismo. È vero che in tutte e tre le direzioni si sono sviluppate degli indirizzi di carattere più propriamente religioso (in senso formale ed organizzato), tuttavia bisogna tenere presente che la civiltà cinese ha il suo fondamento spirituale nell’etica e non nella religione. I cinesi non si occuparono tanto di religione perché si dedicarono alla filosofia. Secondo la tradizione cinese, la funzione della filosofia non è di aumentare la conoscenza positiva ma di elevare lo spirito, cioè tensione verso quanto sta oltre il mondo presente e attuale.
Il tema centrale della speculazione cinese è il seguente: esistono uomini di vari tipi e condizioni (politici, artisti, scienziati) e per ciascuno esiste la più alta forma di sviluppo della quale il tipo è capace. Ma quale è la più alta forma di sviluppo di cui un uomo «come uomo» è capace? Secondo i filosofi cinesi è nientemeno che quella del «saggio» e l’ideale di un saggio è l’identificazione dell’individuo con l’universo.
Ma per raggiungere questo ideale si deve necessariamente abbandonare la società e persino negare la vita? Secondo alcuni filosofi ciò è necessario: il Buddha disse che la vita stessa è la radice e la sorgente della miseria della vita; Platone affermò che il corpo è la prigione dell’anima e alcuni taoisti sostennero che la vita è una escrescenza, un tumore, da cui solo la morte ci libera. Queste concezioni implicano l’idea dell’abbandono del mondo (filosofie dell’altro mondo). Le varie scuole del misticismo orientale, sebbene differiscano tra loro in molti punti particolari, sottolineano tutte l’unità fondamentale dell’universo che è la caratteristica principale del loro insegnamento: l’aspirazione più elevata dei loro seguaci – siano essi indù, buddhisti, o taoisti – è quella di diventare pienamente consapevoli dell’ unità e della interconnessione reciproca di tutte le cose, di trascendere la nozione di sé come individuo singolo e di identificarsi con la realtà ultima. Il raggiungimento di questa consapevolezza, - chiamata «illuminazione» non solo è un atto intellettuale ma una esperienza che coinvolge l’intera persona ed è fondamentalmente di natura religiosa.
Il confucianesimo, invece, è la giustificazione razionale e l’espressione teorica sistema sociale cinese dell’epoca; in quanto filosofia della organizzazione sociale e quindi della vita quotidiana, pone l’accento sulle responsabilità sociali dell’ uomo. La filosofia confuciana parla solo di valori morali e non vuole entrare nella sfera del meta-morale (filosofie di questo mondo).
Queste due correnti della filosofia cinese corrispondono più o meno al classicismo ed al romanticismo della tradizione occidentale. Il confucianesimo - poiché si muove «entro i limiti della società» - appare più di questo mondo del taoismo. Il taoismo - poiché si muove «al di là dei limiti della società» - appare più ultramondano; negli aspetti religiosi e magici del taoismo si può infatti riscontrare la diretta influenza delle pratiche sciamaniche.
In realtà questa distinzione è solo strumentale: la filosofia cinese è di questo mondo ed insieme ultramondana. Le due correnti di pensiero, benché rivali, si completavano reciprocamente: è difficile, di fatto, fare una separazione netta tra loro: in ogni pensatore infatti, si realizza una certa compenetrazione dei due modi di vedere la realtà.
Il tema principale del dibattito filosofico cinese non è quindi “Cos’è la verità?” ma “Dov’è la Via?”, (Dao) ovvero il modo di regolare lo stato e di guidare l’esistenza individuale. Questo termine, Dao (detto anche Tao), di cui sovente si attribuisce il monopolio ai taoisti, è di fatto un vocabolo corrente nella letteratura antica e significa «strada, via», «cammino» e per estensione «metodo, modo di procedere». Inoltre, a causa della fluidità delle categorie grammaticali del cinese antico, Dao può anche significare «camminare», «avanzare», ma anche «parlare, enunciare». Così ogni corrente di pensiero ha il suo Dao, in quanto propone un insegnamento sotto forma di enunciati la cui validità non è di ordine teorico, ma si fonda su un insieme di pratiche. Nel Dao l'importante non è attingere il fine quanto piuttosto saper procedere. la Via non è mai tracciata in precedenza ma si traccia mano a mano che vi si cammina…«caminante no hay camino…se hace el camino al andar…» (Antonio Machado).