Dao De Jing

Senza uscire dalla porta di casa puoi conoscere il mondo,
senza guardare dalla finestra puoi scorgere il Dao del cielo.
Più si va lontano, meno si conosce.
Per questo il saggio senza viaggiare conosce,
senza vedere nomina, senza agire compie.
Dao De Jing, Lao Zi

domenica 31 ottobre 2010

Al di là del linguaggio

Ma se Zhuang Zi sottolinea le proprietà autodissolventi del linguaggio, lo fa per ricusarlo totalmente, o in vista di qualcos’altro? In realtà sembra che Zhuang Zi pensi a qualcosa «al di là del linguaggio». Il linguaggio dunque va usato avendo ben chiara la sua limitatezza: è per questo che anche Lao Zi conclude la sua opera con:

 «Colui che sa non parla, colui che parla non sa».

E ancora:

«La ragion d’essere della nassa è il pesce: una volta preso il pesce, si dimentica la nassa.
La ragion d’essere della trappola è la lepre: una volta presa la lepre, si dimentica la trappola.
La ragione delle parole è il senso: una volta afferrato il senso si dimenticano le parole.
Dove troverò l’uomo che sappia dimenticare le parole, per scambiare con lui due parole?»



Il punto di partenza confuciano era la «decisione di apprendere»: per Zhuang Zi apprendere il Dao è una esperienza che non si può esprimere né trasmettere a parole. Mentre l’intelletto non può mai conoscere nulla con certezza, la mano sa ciò che fa con una sicurezza infallibile: sa fare ciò che il linguaggio non sa dire. Questa metafora indica un tipo di conoscenza privilegiata dai pensatori cinesi: una conoscenza che non rappresenta il risultato di una acquisizione di un contenuto, ma di un processo di apprendimento simile a quello di un mestiere, che non si acquisisce in un giorno, ma che si assorbe impercettibilmente nel tempo.

venerdì 29 ottobre 2010

Lao Zi: "nulla" è meglio di "qualcosa"

Nel suo intento di radicalizzazione, il Lao Zi presenta delle tesi paradossali più forti del Zhuang Zi, che per lo più si limita a ironizzare sulla relatività delle cose. Invece della domanda «come so che ciò che chiamo “conoscenza” non è ignoranza? E come so che chiamo “ignoranza” non è conoscenza?», il Lao Zi afferma:

Non considerare il sapere come sapere è somma cosa
Considerare il non-sapere come sapere è una peste
(Lao Zi, 71)

Il paradosso del Lao Zi consiste nel prendere in contropiede determinate abitudini di pensiero: preferire il debole al forte, il non-agire all’agire, il femminile al maschile, il sotto al sopra, l’ignoranza alla conoscenza. Il Lao Zi parla di preferenza, non di considerare soltanto il debole escludendo il forte, in quanto le coppie di opposizione nel pensiero cinese non sono mai a carattere esclusivo ma complementare, poiché i contrari sono in relazione non già logica, bensì organica e ciclica, sul modello generativo della coppia yin/yang.

Zhuang Zi arriva ad elogiare l’inutilità:

Mentre attraversava una montagna,
Zhuang Zi vide un albero dai lunghi rami e dal fogliame rigoglioso.
Un boscaiolo che tagliava la legna lì vicino non toccava quell’albero.
Zhuang Zi gli chiese il perché «Perché la sua legna non è buona a nulla» rispose il boscaiolo.
«Grazie alla sua inutilità quest’albero giungerà al limite naturale della sua esistenza»
concluse Zhuang Zi. (Zhuang Zi, XX)

Ma il paradosso più radicale consiste nell’affermare che il nulla ha più valore di qualcosa, il vuoto ha più valore del pieno:

Trenta raggi convergono nel mozzo
Ma è proprio dove non c’è nulla che sta l’utilità della ruota
Si plasma l’argilla per farne un recipiente
Ma è proprio dove non c’è nulla che sta l’utilità del recipiente
Si aprono porte e finestre per fare una stanza
Ma è dove non c’è nulla che sta l’utilità della stanza
Così il «c’è» presenta delle opportunità, che il «non c’è» trasforma in utilità
(Lao Zi,11)

martedì 26 ottobre 2010

Realtà o sogno?

Più che un irrazionale, Zhuang Zi è un antirazionalista: mette in dubbio che la ragione analitica possa mostrarci cosa è il mondo.

Un giorno, Zhuang Zi si addormentò in un parco: sognò di essere una bellissima farfalla. Vola di qua, vola di là, alla fine la farfalla, stanca, si addormentò. Anche la farfalla fece un sogno: sognò di essere Zhuang Zi. In quel momento Zhuang Zi si svegliò: ma non riusciva a capire se in quel momento era il vero Zhuang Zi o il Zhuang Zi che la farfalla aveva sognato. Non sapeva più se se era Zhuang Zi ad avere sognato di essere una farfalla, o se era una farfalla ad aver sognato di essere Zhuang Zi.

Qui il problema, per Zhuang Zi, è che non vi è propriamente alcun modo di sapere se colui che parla è in stato di veglia o di sogno, così come non vi è alcun modo di sapere se ciò che si pensa sia conoscenza o ignoranza.

Mentre sogniamo, non sappiamo di sognare, interpretando un sogno nel mezzo di un altro sogno, e soltanto al risveglio sappiamo di aver sognato. Malgrado ciò gli sciocchi si credono desti: voi e Confucio non fate che sognare, ed io che dico che sognate, sono io stesso un sogno.

Pascal, molto tempo dopo, affermava nei Pensieri:

Non potrebbe darsi che quella metà della vita in cui crediamo di essere desti non fosse essa stessa un sogno sul quale si fossero innestati gli altri, e da cui ci svegliassimo al momento della morte?... chi sa se l’altra metà della vita, in cui crediamo di essere svegli, non sia se non un sonno un po’ diverso dal primo, dal quale ci destiamo quando crediamo di addormentarci?

E come non ricordare "La ruinas circolares" di Borges?

...En el sueño del hombre que soñaba, el soñado se despertò... Por un instante, pensò refugiarse en las aguas, pero luego comprendiò que la muerte venia a coronar su vejez y a absolverlo de su trabajos. Caminò contra los jirones de fuego. Éstos no mordieron su carne, éstos lo acariciaron y lo inundaron sin calor y sin combustiòn. Con alivio, con humillacion, con terror, comprendiò que èl tambien era una aparencia, que otro estaba soñandolo.

domenica 24 ottobre 2010

Zhuang Zi: la critica del linguaggio

Zhuang Zi ricorre ad ogni procedimento possibile per deridere la ragione discorsiva: nel suo libro, con una forma di suprema ironia, spesso usa le parole con un significato opposto a quello usuale, mostrando così di aver capito che spesso l’umorismo è ben più efficace e corrosivo di un lungo discorso. Predilige il dialogo serrato o l’aneddoto paradossale che si conclude con un tocco di nonsenso finalizzato a produrre un sussulto, un balzo in una verità altra rispetto a quella della logica ordinaria . Un altro suo procedimento consiste nell’intavolare una discussione pesudo-logica con tutte le apparenze della razionalità, per concluderla in modo delirante.

Zhuang Zi e Hui Zi passeggiavano sull’argine del fiume Hao. Zhuang Zi esclamò: «Guardate i pesci, come sguazzano a loro agio! E’ questo il piacere dei pesci».
Hui Zi replicò: «Ma voi non siete un pesce: come potete sapere quale è il piacere dei pesci?».
Zhuang Zi gli ribattè:«E voi non siete me; come potete dunque sapere che io non so quale è il piacere dei pesci?».
E Hui Zi di rimando: «Io non sono voi, e dunque di certo non so ciò che sta in voi. Ma voi di certo non siete un pesce, ed è dunque evidente che non sapete quale è il piacere dei pesci.»
Zhuang Zi rispose: « Riprendiamo dall’ inizio, se non vi dispiace. Voi mi avete chiesto come sapevo qual è il piacere dei pesci: dunque, per farmi questa domanda, sapevate che lo sapevo. Ebbene lo so, standomene qui in riva al fiume!»

Hui Zi è un altro maestro, rappresentante dei sofisti (scuola dei nomi) amico di Zhuang Zi: tuttavia i due hanno posizioni opposte riguardo al linguaggio. Mentre Zhuang Zi non perde occasione di criticarlo, in quanto troppo relativo per farne un valido strumento di riferimento, Hui Zi –rappresentante di una tendenza diffusa nel periodo degli Stati Combattenti, quella dei «logici» - si sforza invece di farne uno strumento ideale di conoscenza.

Un punto comune a tutte le correnti interessate alla questione del linguaggio – in contrasto con la tradizione filosofica greca - è l’assenza di interesse per la definizione come portatrice di significato. Nell’ambito della logica quello che si cerca non è tanto la Verità quanto piuttosto delle norme, dei criteri per guidare la conoscenza e l’azione. Mentre i dialoghi platonici si preoccupano principalmente di formulare le definizioni più esatte per accedere alla vera conoscenza, i cinesi sono invece attenti ad evitare definizioni che, secondo loro, sono limitative ed in ogni caso quello che conta non è tanto il significato teorico che si può dare ad una nozione, quanto il modo con cui questa deve essere utilizzata e vissuta.

Ciò che è messo ironicamente in causa non è più soltanto l’uso che si fa del linguaggio, ma il linguaggio stesso. Per Zhuang Zi il linguaggio non può dirci nulla sulla vera natura delle cose per il fatto che è esso stesso a porre non soltanto i nomi ( 名ming), che diamo alle cose ma al contempo le cose stesse ( 实shi). Cos’è che permette di decidere che qualcosa «è questo» o non lo è? Per Zhuang Zi con una affermazione di tal genere altro non si fa che aprire una prospettiva propria del locutore, che vale soltanto per lui: in tal senso confrontare l’«è questo» di un locutore con l’«è questo» di un altro locutore non ha alcun valore poiché non sussiste un terreno comune di valutazione tra le due prospettive meramente soggettive.
I logici dicevano:

Asserire che nessuna proposizione prevale nell’argomentazione logica non può corrispondere alla realtà: l’argomentazione consiste in questo: l’uno dice che è così, l’altro dice che non è così, e prevale colui la cui proposizione corrisponde alla realtà

Ma Zhuang Zi risponde:

Supponendo che ci mettiamo a discutere, voi ed io, e che voi abbiate la meglio su di me, questo significherebbe che voi avete ragione e io torto? E se sono io ad avere la meglio su di voi, questo significherebbe che sono io ad avere ragione e voi torto? O forse invece avremmo ciascuno in parte ragione e in parte torto? Oppure avremmo entrambi ragione, oppure entrambi torto? E se non siamo capaci di dirimere noi stessi la questione, altri sarebbero ancora più confusi. A chi fare appello come arbitro? Se questo qualcuno è d’accordo con voi o con me, come potrebbe per ciò stesso essere arbitro? E se non è d’accordo né con me né con voi come potrebbe dunque arbitrare? Ma se è d’accordo sia con me sia con voi, l’arbitrato è forse possibile? Così dunque se nessuno – né io né voi né un terzo – è capace di dirimere la questione, potremmo forse ricorrere a qualcun altro?


Zhuang Zi critica quindi il linguaggio, non tanto perché ci fornirebbe una rappresentazione falsata della realtà, ma in quanto il linguaggio non è capace di conoscerla. Zhuang Zi si diverte a mettere le proprie idee in bocca a Confucio sovvertendone il ruolo. La sua critica verso Confucio è feroce: lui aveva detto al suo discepolo Zilu:

«Vuoi che ti insegni cos’è la conoscenza? Sapere che si sa quando si sa, e sapere che non si sa quando non si sa, questa è la conoscenza»

Inoltre aveva affermato di sè nei Dialoghi:

«Io, a quindici anni decisi di dedicarmi allo studio; a trenta anni mi affermai saldamente nella società; a quaranta anni non ebbi più nessuna incertezza; a cinquanta anni compresi il Decreto del Cielo; a sessant’anni seppi ascoltare tutti; a settanta anni, riuscii a seguire i desideri del cuore senza violare le regole» (Dialoghi II-4)

Ed ecco la parodia che ne fa Zhuang Zi:

«A sessanta anni Confucio non aveva fatto altro che cambiare opinione sessanta volte. Ogni volta che aveva cominciato col dire “è così”, aveva poi concluso con “non è così”. Chi sa se per un uomo di sessant’anni la verità non si presenti sotto lo stesso aspetto di ciò che per cinquantanove anni fu per lui un errore?»

In un epoca in cui imperversavano le discussioni tra confuciani, moisti, sofisti, Zhuang Zi ritiene che non vi sia motivo di dare ragione agli uni piuttosto che agli altri. Questo lo induce a chiedersi: la ragione è davvero ragionevole? La ragione analitica funziona sul principio del terzo escluso: la tal cosa «è quella» o non lo è. Ma secondo Zhuang Zi è illusorio pretendere di affermare qualcosa, dato che è possibile, simultaneamente affermarne il contrario.

sabato 23 ottobre 2010

Le non-parole di Zhuang Zi

Con Zhuang Zi si apre una nuova era della riflessione filosofica, incentrata sulla grande questione del rapporto tra l’uomo ed il Cielo (o il Dao). In proposito Zhuang Zi condivide con Lao Zi la medesima intuizione iniziale: il Dao è il corso naturale e spontaneo delle cose, che bisogna lasciare agire. Il solo essere a staccarsene è l’uomo, con la sua pretesa di sovrapporvi le proprie parole e le proprie azioni. La condizione primaria per la ricerca del Dao è di rendersi disponibili, di mettersi in ascolto, in modo da poter captare le sottili vibrazioni che ci giungono dalla natura, malgrado i rumori che le si sovrappongono. Uno di questi è il linguaggio che, come costruzione artificiale dell’uomo (quindi non-naturale) rappresenta il maggiore ostacolo nel cammino del Dao.

venerdì 22 ottobre 2010

Zhen Ming: Rettificare i nomi

C'è un celebre detto, attribuito a Confucio in risposta al Duca Jing di Qi che lo interrogava sull'arte di governare:

«Che il sovrano agisca da sovrano, il ministro da ministro, il padre da padre, il figlio da figlio» (Dialoghi XII,11)
«…se i nomi non sono corretti, non si possono fare discorsi coerenti. Se il linguaggio è incoerente, gli affari di governo non si possono gestire. Se questi sono trascurati, i riti e la musica non possono fiorire. Se i riti e la musica sono trascurati, le pene ed i castighi non possono essere giusti. Se i castighi sono ingiusti, il popolo non sa più come muoversi. Ecco perché l'uomo di valore usa soltanto nomi che implicano discorsi coerenti, e parla soltanto di cose che può mettere in pratica. Ecco perché l'uomo di valore è prudente in quello che dice.»(Dialoghi XIII, 3)

L'adeguamento si effettua in due sensi: occorre agire sui nomi in modo che essi si applichino solamente a quelle realtà che li meritano, ma anche agire sulla realtà delle cose in modo che esse coincidano con i nomi convenzionali.



mercoledì 20 ottobre 2010

Zheng: governare

«Governare (zheng) equivale ad essere nella rettitudine (zheng (Dialoghi XII,17)


Il credo politico di Confucio lo conduce così a definire un ordine di priorità che resta sorprendentemente attuale:


Zigong chiese:«Cosa significa governare?»
Il Maestro rispose:«Significa vigilare perché il popolo abbia cibo ed armi a sufficienza e assicurarsi la sua fiducia».
Zigong chiese ancora:«E se si dovesse fare a meno di una di queste tre cose, quale sarebbe?».
Il maestro rispose: «Sarebbero le armi».
L'altro chiese di nuovo:«E delle altre due quale sarebbe?».
Il maestro disse: «Sarebbe il cibo. In ogni epoca gli uomini sono stati sempre soggetti alla morte. ma un popolo privo di fiducia non sarebbe in grado di reggersi.» (Dialoghi XII,7)

lunedì 18 ottobre 2010

Zhong Yong: Il Giusto Mezzo

«Zhong» significa «non essere inclinato da nessuna parte» e quindi «stare nel mezzo». «Yong» vuol dire «costante». Il trattato illustra infatti l’equilibrio che deve guidare le azioni di ogni uomo che voglia comportarsi in maniera moralmente corretta.

Quando un uomo non manifesta la gioia, la rabbia, la tristezza e il piacere, si dice che è nel giusto mezzo; quando li manifesta, ma in misura moderata, si dice che è in stato di armonia. Il Giusto Mezzo costituisce il grande fondamento del mondo, mentre l’armonia è la via maestra.
(zhong yong, 1)

Una delle differenze più grandi tra oriente e occidente è la visione morale:

La filosofia greca e la religione giudaico-cristiana sono stati i due capisaldi della tradizione occidentale: la prima ha operato inaugurando una logica disgiuntiva che ha separato il mondo del Cielo, sede d'ogni valore, da quello della Terra, dove la materia è causa d'ogni involuzione e impedimento; la seconda si è inserita con i propri dogmi creando un dualismo cosmico che ha contrapposto "la vita alla morte", lo "spirito alla carne", il " peccato alla redenzione".

il pensiero giudaico-cristiano è impostato sul concetto del «peccato» come distacco, separazione dal Bene. A partire dal peccato originale, tutto il senso del percorso umano è la lotta contro il Male, per l’affermazione finale del Bene.

Niente di tutto questo in Oriente: per il pensiero cinese, «bene» e «male» sono inseparabili componenti dell’esistenza (yin/yang): sarebbe quindi inconcepibile un’azione volta alla «eliminazione» di uno dei due principi.

Il Santo per i cinesi non è tanto colui che lotta contro il male per il bene, quanto quello che «si astiene dagli eccessi», che vive nel «giusto mezzo», mantenendo un grande equilibrio tra le pulsioni. Un «eccesso di bene» è altrettanto dannoso di un «eccesso di male».

domenica 17 ottobre 2010

De: La Virtù

Il sovrano che, nell'ideale confuciano, incarna spontaneamente il ren, imponendosi con la benevolenza e non con la forza, possiede il  德 de. Anche questo termine, che viene abitualmente tradotto con «virtù», viene rivisitato da Confucio.


Non è tanto la virtù in senso morale, in opposizione al vizio, quanto piuttosto la «virtus» latina intesa come ascendente naturale, carisma, che consente ad una persona di affermarsi senza nessuna coercizione.

venerdì 15 ottobre 2010

Tian Zi: Il Figlio del Cielo

L'uomo di valore (junzi) è dunque l'incarnazione di una terna di valori: apprendimento (xue), il senso dell'umanità (ren) e lo spirito rituale (li).
Poiché la famiglia è percepita come una estensione dell'individuo, lo stato come una estensione della famiglia, e poiché il principe è rispetto ai suoi sudditi ciò che un padre è rispetto ai suoi figli, non vi è soluzione di continuità tra etica e politica.

Confucio converte dunque l'autorità del principe nell'ascendente dell'uomo esemplare, allo stesso modo in cui il«decreto celeste» è convertito da mandato dinastico in missione morale.
L'antica unità religiosa, ereditata dagli Shang e rielaborata dai Zhou, si costruiva attorno alla persona del «Figlio del Cielo» 天子 (tian zi); in quanto tale, egli era il solo che potesse sacrificare al Cielo ed agiva quindi come sommo sacerdote. Con Confucio questa comunione religiosa viene accresciuta dal consenso morale che si raccoglie intorno all'uomo di valore.

mercoledì 13 ottobre 2010

Dao: la Via

Per Confucio l'uomo ha una sacra missione: quella di affermare e di elevare sempre più la propria umanità. Questa missione primeggia su tutti gli altri sacri doveri, compresi quelli che si riferiscono alle potenze divine o dell'aldilà.

Il Maestro non parlava mai di prodigi o di spiriti, di violenza o di atti contro natura (Dialoghi VII,20)

Zilu domandò in che modo si dovessero servire gli spiriti. Il Maestro gli rispose:«Se non si è in grado di servire gli uomini, come si possono servire gli spiriti?» Zilu allora lo interrogò intorno alla morte. Il Maestro rispose:«Se non si sa cosa è la vita, come si può sapere cosa è la morte?» (Dialoghi XI,11)

Fan Chi domandò in che cosa consistesse la saggezza. Il Maestro rispose «Nell'adempiere ai doveri verso gli uomini secondo giustizia, e nell'onorare spiriti e demoni tenendosene a distanza» (Dialoghi VI,20)

Quest'ultima frase esemplifica perfettamente l'atteggiamento preconizzato da Confucio nei confronti dell'ambito del sovrumano. Il sacro non si identifica più con il culto reso alla divinità ma con la coscienza morale individuale, con la fedeltà alla Via 道(Dao) che è la fonte di ogni bene. In nome del dao l'uomo di valore deve essere pronto «ad essere misconosciuto dagli uomini senza adombrarsene» come si dichiara all'inizio del Dialoghi, cioè a rinunciare a tutti i vantaggi ed a tutti i segni esteriori del successo e del riconoscimento politico.

Il Maestro disse: «Onori e ricchezze sono quanto più l'uomo desidera al mondo e tuttavia è meglio rinunciarvi che allontanarsi dalla Via. Povertà e mortificazione sono quanto l'uomo più detesta al mondo e tuttavia è meglio accettarle che allontanarsi dalla Via. L'uomo di valore che si allontana dal ren non è più degno di questo nome; l'uomo di valore è colui che non se ne allontana neppure per il breve intervallo di un pasto, per quanto pressanti possano essere le circostanze in cui si trova.» (Dialoghi IV,5)

Si tratta di una istanza che può comportare per l'uomo di valore persino il sacrificio della propria vita:

Il Maestro disse:«Colui che è risoluto a seguire la Via, l'autentico uomo del ren, non vuole conservare la vita al prezzo di sacrificare il ren ma, se è necessario, la sacrifica per far vivere il ren» (Dialoghi XV,8)

Tale carattere sacro dell'adesione al Dao è sottolineato da Confucio attribuendovi il valore di «decreto del Cielo» 天名 (tian ming).

lunedì 11 ottobre 2010

Li: lo spirito rituale

Per Confucio essere umani equivale ad essere in relazione con gli altri, e la natura di tale relazione è percepita come rituale.

Han Hui domandò cosa fosse il ren. Il maestro rispose:«Vincere il proprio io per rivolgersi ai riti, questo è il ren» (Dialoghi XII,1)

Un altro discepolo che a sua volta pone la stessa domanda su ren riceve la seguente risposta:

«In pubblico comportati sempre come se fossi in presenza di un ospite di riguardo. Quando sei al governo, tratta il popolo con la stessa gravità di chi partecipa ad un sacrificio solenne. Non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te. In tal modo, che tu sia al servizio dello stato o di una grande famiglia, non susciterai alcun risentimento.» (Dialoghi XII,2)

Nei suoi riferimenti al 禮 li, Confucio allude spesso alla origine religiosa del termine (composto dal radicale 示 che indica le cose sacre a cui viene aggiunta la rappresentazione di una minestra di cerali 豆 in una coppa 酉, esso designa inizialmente un vaso sacrificale e per estensione il rituale del sacrificio) tuttavia ciò che interessa Confucio nel li non è tanto l'aspetto religioso quanto l'atteggiamento rituale di colui che vi partecipa. Tale atteggiamento ha una dimensione soprattutto interiore ma si manifesta esteriormente con un comportamento formalmente controllato.
La dimensione rituale conferisce una qualità estetica all'umanesimo confuciano che non deriva solamente dalla bellezza formale dei gesti e dalla raffinatezza dei comportamenti: si ha qui un'etica che trova la sua giustificazione in se stessa, nella propria armonia.

Ne consegue la naturale associazione dei riti e della musica, espressione per eccellenza dell'armonia.

Il Maestro disse: «Un uomo si desta con la lettura delle Odi, si consolida con la pratica del rituale, si perfeziona con l'armonia della musica» (Dialoghi VIII,8)

Risulta chiaro che la nozione di li rovescia l'idea corrente del ritualismo come mera etichetta e vuoto cerimoniale: Confucio opera riguardo a li uno slittamento semantico, passando dal significato sacrificale e religioso all'idea di un atteggiamento interiorizzato proprio di ciascuno, rappresentato dalla consapevolezza e dal rispetto degli altri.

venerdì 8 ottobre 2010

Xin: la fiducia

Sulla pietà filiale si fonda la relazione politica tra principe e suddito, la relazione familiare tra fratello maggiore e fratello minore, tra marito e moglie e sociale tra amici.
L'armonia di queste cinque relazioni, considerate fondamentali dai confuciani, è garantita dal rapporto di fiducia 信 xin, la cui grafia associa all'elemento亻ren «uomo» il carattere 言yan «parola» cioè la corrispondenza tra quanto l'uomo dice e ciò che fa).

lunedì 4 ottobre 2010

Xiao: la pietà filiale

Ren non designa soltanto le potenzialità di sviluppo umano dell'individuo, ma anche la rete delle relazioni umane. Ren si manifesta dunque in virtù eminentemente di tipo relazionale in quanto fondate sulla reciprocità e sulla solidarietà, di cui si può ancor oggi misurare la importanza nei legami gerarchici e vincolanti che caratterizzano la società cinese.

La relazione che in natura fonda l'appartenenza di ogni individuo al mondo come alla comunità umana è quella del figlio nei confronti del padre.

La pietà filiale 孝xiao (nel carattere si riconosce l'elemento 子zi «figlio» sottomesso all'elemento老 lao «vecchio» cioè al padre) è dunque la chiave di volta di ren in quanto è l'esempio per eccellenza della relazione di reciprocità.

sabato 2 ottobre 2010

Shu: la mansuetudine.

Ai suoi discepoli che si chiedono vi sia una parola capace di guidare la condotta di una intera vita, il maestro risponde:

«Mansuetudine (shu) non è forse la parola chiave? Ciò che non vuoi sia fatto a te, non farlo agli altri.» (Dialoghi XV,23)
La parola 恕 shu, la cui grafia ( 心xin «cuore, mente, sentimento» sormontato dall'elemento 如ru «essere simile a…») introduce una relazione analogica tra i cuori, significa «considerare gli altri come si considera se stessi»

«…per praticare ren, occorre cominciare da se stessi: desiderare la sicurezza altrui quanto la propria, auspicare il successo altrui quanto il proprio. Attingi in te l'idea di ciò che puoi fare per gli altri - questo ti porterà sulla via di ren! » (Dialoghi VI,28)