Dao De Jing

Senza uscire dalla porta di casa puoi conoscere il mondo,
senza guardare dalla finestra puoi scorgere il Dao del cielo.
Più si va lontano, meno si conosce.
Per questo il saggio senza viaggiare conosce,
senza vedere nomina, senza agire compie.
Dao De Jing, Lao Zi

venerdì 16 dicembre 2011

Marco Polo diceva il vero sulla corte del Grande Cane, parola di frate Odorico!

«Avvegnaché molte et varie cose de' costumi et de le conditioni di questo mondo da molte altre persone siano state ditte et narrate; perciò è da sapere et anche io voglio narrare. Io Frate Odorico di Friuli voglendo andare et passare nelle parte di coloro che non credono nella fé di Dio, et acciò ch'io possa di questo alcuno frutto che sia utile all'anime nostre guadagnare, molte cose grande et maravigliose udii et viddi, le quali io posso con veritade narrare.»


Siamo nel Maggio del 1330: così inizia il resoconto della avventurosa esperienza di Odorico da Pordenone quando – su richiesta del suo superiore Guidotto, che lo ospitava nel monastero presso la Basilica di Sant’Antonio di Padova – inizia a dettare la storia del suo viaggio al frate Guglielmo di Solagna. Odorico è distrutto e malato: tornato via terra da Pechino dopo un viaggio faticoso e pieno di pericoli, sarebbe dovuto andare ad Avignone per riferire al Papa Giovanni XXII della situazione della missione in Cina retta da Giovanni da Montecorvino. Ma un po’ per l’età – aveva già 65 anni, che per l’epoca era un traguardo ragguardevole – un po’ per la enorme fatica del viaggio, poco dopo il suo sbarco a Venezia si era ammalato ed aveva dovuto interrompere il viaggio in Francia, paese in cui non arriverà mai.

I manoscritti con la relazione di Odorico apparvero nel 1330 col titolo di Itinerarium Fratris Odorici de Foro Julii, Ordinis Fratrum Minorum, de mirabilibus Orientalium Tartarum. Dopo le descrizioni di viaggio fornite da Marco Polo e che Odorico sostanzialmente completa, costituiscono per noi la più preziosa fonte di informazioni storiche e geografiche sull'Asia del sec. XIV. La cosa interessante è che i racconti di frate Odorico coincidono nella sostanza con le osservazioni di Marco Polo, confermandone la veridicità.

Frate Odorico, al secolo Odorico Mattiuzzi era nato a Villanova di Pordenone nel 1265: entrato ancora adolescente nel convento di san Francesco di Udine, fu ordinato sacerdote nel 1290. Venuto a contatto con molti confratelli missionari, e colpito dalla figura di fra’ Giovanni da Montecorvino, fondatore di chiese nelle più remote regioni dell’Asia, sviluppò quel fervore missionario che lo avrebbe portato a lasciare il proprio paese per raggiungere il suo maestro a Pechino.

( vedi anche: Frate Giovanni da Montecorvino: il primo vescovo di Pechino)

Nel 1318 – aveva già 50 anni - parte da Venezia per Costantinopoli per poi raggiungere Trebisonda: passa poi per Erzurum, in Turchia, e dopo una sosta a Sultanyeh in Armenia prosegue verso Kashan in Persia e poi verso Yazd, seguendo probabilmente l’itinerario tenuto dai Polo nel loro ritorno, poi a Baghdad ed infine ad Ormuz. Ma diversamente dai Polo – che avevano rinunciato a prendere la via del mare a causa della poca sicurezza che offrivano le navi di questo porto – il frate friulano si imbarca per l’Oceano Indiano e raggiunta la costa la costa del Malabar, sosta per un periodo a Thane [che ora è un sobborgo di Bombay]. Ripreso il suo lungo viaggio, tocca l’isola di Ceylon e, passato nel mar del Bengala, si reca a Madras e poi a Sumatra e a Giava, giunge finalmente in Cina sbarcando a Canton. Da lì riprende il mare fino a Zayton, [oggi Quanzhou, nel Fujian]

 «...venni a una nobile terra che si chiama Zaiton, ne la quale noi Frati Minori abbiamo duo luoghi, ... In questa città è grande copia di tutte quelle cose che sono necessarie a la vita dell'uomo ... Et questa città è ben grande per due Bologne. Et sonvi molti monasteri di Religiosi, e quali adorano l'idole. In uno de' quali monasteri io fui, nel quale erano tre mila Religiosi, e quali hanno 11.ooo idoli, et el minore che v'è, è com'uno Sancto Cristofano grande. Quando fui là entro, era otta che gli davano mangiare in questo modo, che gli porgono el cibo caldo, si che el fumo vae all'idolo, el quale fumo dicono eh' è el loro mangiare, et l'altro si mangiano per loro. Et veramente questa è de le migliori terre che sia oggi nel mondo, di tutto quello che vuole el corpo dell'uomo. Et molte altre cose si potrebbe dire di questa terra, le quali io non scrivo... »


Infine, da Nanchino, per il Canale Imperiale giunge a Cambalec [Pechino] dove finalmente incontra il metropolita Giovanni da Montecorvino, ormai ottantenne, con cui si fermerà per ben tre anni.

Frate Odorico da Pordenone non è soltanto il missionario che pensa solo alla propagazione della fede, ma è anche un osservatore diligente e curioso; egli sa di quanto interesse saranno le notizie che porterà in Europa e perciò nota ogni cosa: i costumi dei paesi, i culti di quei popoli lontani, la lingua, le razze, i prodotti della terra e la ricchezza dei commerci.

Ci fa sapere Odorico che:

«Si riguarda come una gran leggiadria per gli uomini di questo paese l'avere unghie lunghe alle dita, che ripiegano nelle mani: ma la grazia e la bellezza delle loro donne consiste nell'avere piccoli piedi; epperò le madri, allorché le figlie sono giovani, glieli fasciano acciò non crescano...»

a proposito della scrittura cinese, osserva:

« assai pregevole quella che la scrittura cinese comprenda in una sola figura più lettere formanti una parola»

Un’altra peculiarità è l’unità di misura che Odorico usa per darci una idea della dimensione delle città: ecco che «... Censscanlan, et è ben grande per tre Vinegie...» «... Et questa città [Zaiton]è ben grande per due Bologne...» e quando, nel suo viaggio di ritorno incontrerà Ghosan, commenterà «.. et è bene Vicenza migliore di quella...»

Non secondario è l’interesse del frate per gli animali domestici e selvatici di cui i cinesi si cibano: il porto di Canton – che lui chiama Censscanlan – lo riempie di meraviglia come l’abbondanza e la varietà del cibo:

«...La prima città di questa provincia ch'io trovai, è chiamata Censscanlan, et è ben grande per tre Vinegie, lungi dal mare per una dieta, et è posta a pie d'un fiume, l'aqua del quale per occasione di questo mare monta oltra la terra ben per dodici diete:tutto el popolo di questa provincia son idolatri. Et questa città ha tanto et sì grande naviglio, che quasi noi no lo potremo credere. Onde tutta Talia non ha cotanto naviglio, né si grande come questa sola città... Et sonvi le più belle et le maggiori oche, et più beli' et maggior derrata che sia nel mondo: et l'una piglia per due delle nostre; et sono tutte bianche come latte, et hanno uno osso grande come uno uovo, et vermiglio come sangue, et hanno sotto la gola una pelle lunga ben uno somesso, che pende; ... et cosi come dell'oche, cosi è deir anitre et galline che vi sono, che sono sì grande che parrebbe una maraviglia. Et sonvi quivi e maggiori serpenti che siano nel mondo, et pigliasene molti da questa gente, et manuchansi dolcemente per loro. Et non è si solenne convito, che se no si avessono uno di questi serpenti, che si tenessero fare nulla. In questa città ae grandissima abundancia di tutte vettuarie che siano nel mondo ...»


Risalendo verso nord , la ricca provincia della Cina meridionale fa sfilare davanti ai suoi occhi estatici città e paesi densi di popolazione e floridi per commerci ed industrie quali Fuciù [Fuzhou] e Hangciù [Hangzhou]. Lungo la costa, non dimentica di annotare le stranezze di quei paesi, come la pesca con i cormorani:

«...Et partendomi di qui per altre diciotto diete per molte città et terre, et venendo a uno grande fiume, arrivai a una città, per la quale va questo fiume, et evvi per lo traverso uno grandissimo ponte,in capo del quale è uno albergo, in lo quale io albergai: il quale albergatore volendomi fare a piacere, disse: Se tu vuoi vedere pescare, vieni meco; et si me menò per questo ponte. Et essendo ivi, guardai et vidi in quelle sue barche smergoni legati in su le stanghe, a'quali quello uomo che gli avea, legò a ciascuno uno filo a la gola perchè non potessono trangugiare el pesce, et in una di queste barche mise tre grandi ceste; una da proda, l'altra in mezzo, l'altra da poppa: et quando ebbe cosi fatto, disciolse questi smergoni, e quali si giettavano nell'acqua, et così pigliavano molti pesci, e quali egli medesimi gli mettea nelle ceste; onde in piccola otta tutte quelle ceste furono piene: et essendo cosi piene, si gli disciogliea el filo dal collo, et poscia gli lasciava tuffare nell'acqua acciò che si pascessero di pesci: et quando erano pasciuti, e' tornavano al suo luogo, et sì gli legava ivi com'erano in prima. Io mangiai di questi pesci. ...»


Un’altra stranezza, che colpisce frate Odorico, è quella delle galline pelose:

«...Di questa contrada partendomi, venni verso l'Oriente a una città che si chiama Fuzo [Fuzhou nel Fujan]], la quale è di cercuito di trenta miglia, et sonvi e maggior galli che siano nel mondo; et le galline sono tutte bianche come neve, et non hanno penne, anzi lana come pecore. Et è una bella città posta sopra '1 mare ...»


Anche Marco Polo così narra a proposito della città di Quenlinfu: [oggi Jian’ou, nel Fujan]

«...E havvi belle donne, e havvi galline che non hanno penne, ma peli come gatte, e tutte nere, e fanno uova come le nostre, e sono molto buone da mangiare...»


L’unica differenza è che le galline di Odorico erano bianche!

Di Pechino non si sazia di ammirare le bellezze, la città imperiale, i giardini e lo sfarzo di corte, confermando con la sua testimonianza la verità della relazione di Marco Polo, anche se del grande viaggiatore veneziano non ha l’acutezza e l’esperienza: egli guarda alla superficie delle cose, non penetra l’anima del mondo orientale, dà molto posto alle favole e anche se annota tutto minuziosamente, la sua vista non spazia molto lontano.

Ecco come frate Odorico descrive la residenza dell’imperatore:

«...Allotta partendomi da questa città et passando per molte città et terre verso l'Oriente, venni a quella nobile città Cambalec. Questa è molto antica città, la quale è in quella provincia del Catayo; et questa tolsono e Tartari: ...In questa città quello grande Cane ae la sua sedis, ov'egli ae uno grande palagio. E muri di quello palagio circondano bene quattro miglia. Nel cortile di questo palagio è uno grande monte, nel quale è edificato uno palagio, el quale è il più bello del mondo. In questo monte sono edificati, cioè piantati, molti alberi; per la qual cosa egli ha nome el monte verde. Da lato di questo monte è fatto uno grande lago per traverso, et evvi uno bellissimo ponte. In questo lago sono tante oche salvatiche, anitre et cesani, eh' è molto maravigliosa cosa. Onde quando el Signore vuole uccellare, e' non ha bisogno d'uscire di casa. In questo palagio sono e giardini pieni di diverse generationi di bestie, le quali quando egli le vuole cacciare,
e' puote senza uscire di casa...»

«...El palagio, nel quale è la sedia sua, è molto bello et grande, del quale la terra è più alta duo passa: egli ae dentro ventiquattro colonne d'oro, e tutti e muri di quello sono coperti di pelle rosse: de le quali pelle si dice, ch'elle sono le più nobili che siano nel mondo. Nel mezzo del palagio è una grande pigna, alta più di duo passa, la quale è tutta d'una pietra preziosa, et è tutta legata d'oro; Questa pigna ae le reti di perle grande, che pende da quella, le quali reti sono larghe forse una spanna. Per questa pigna si reca el bere per condutto che s'ha nella corte del re. Appresso a questa pigna stanno molti vasi d'oro, con gli quali ciascuno che vuole, puote bere. Et in questo palagio sono molti paoni d'oro. Quando alcuno Tartaro vuole fare alcuna festa al suo Signore, allotta e' sono così ivi percotendosi insieme le mani; et allotta questi paoni alargano l'ale et pare che ballino: questo si fa per arte diabolica, overo per ingegno ch'è sotterra...»


Yesun Temur Khan
«...Quando questo Signore siede in su la sua sedia imperiale, da lato manco sta la Reina uno grado più di sotto, et de l'altre donne istanno, le quali egli vi tiene. Nella parte di sotto stanno tutte le altre donne del parentado: tutte quelle che sono maritate hanno uno pie d'uomo sopra el capo, lungo ben uno braccio et mezzo. Sotto quello pie sono penne di grua; ne la sommità tutto quello pie è adornato di grosse perle: onde se glie nel mondo delle perle grosse et belle, si sono ivi. Queste sono cos'i in adornamento di queste donne. Dall'altro lato dritto del Re dimora el figliuolo primogenito, el quale de'regnare dopo lui: di sotto da questi stanno tutti quegli che sono del sangue del Re. Et ivi sono quatro scrittori che scrivono tutte le parole che dice Io Re. Nanzi el cospetto di quello stanno e suoi baroni et molti altri infiniti huomini. Neuno di loro s'ardirebbe di favellare per neuno modo, s'eglino dal Signor grande noi domandassero: però eccetto gli giucolari, quando volessono fare alegrare el Signore ; et questi giucolari neuna altra cosa s'ardirebbero di fare se non come gl'imponesse el Signore. Inanzi la porta stanno li baroni per guardie, acciò che neuno tocchi el sogliar dell'uscio; et se trovassero veruno che 'l toccasse, egli lo batterebbono fortemente...»


L'imperatore, che al tempo era Yesür Temür Khan, molto tollerante in fatto di religioni, aveva assegnato ai Frati Minori un luogo in Pechino, ed anche alla corte imperiale, dice Odorico, avevano una sede dedicata a loro, con l'obbligo d'intervenire a tutte le feste imperiali, nelle quali i sacerdoti delle varie religioni dovevano dare la loro benedizione all'imperatore.

«...Una cosa io voglio contare del Gran Cane. Usanza è in quella parte che quando el ditto Signore passa per alcuna contrada, gli huomini dinanli alle lor case appigliano e fuochi et mettono in questi fuochi molte specie, et fanno fumo per mandare l'odore al suo Signore, et molta gente gli vanno retro. Una fiata venendo. egli in Cambalec, et sapiendosi certamente la sua venuta, uno nostro Vescovo con alquanti Frati Minori, et io con loro insieme, gli andammo incontro ben più giornate; et appressandoci a lui, ponemmo la croce in su l'asta pubblicamente, sia che ogni huomo la potea vedere, et io avea in mano uno teribolo, ch'io m'avea portato, et cominciamo a cantare ad alta boce : Veni creator Spiritus, eie: et cantando noi così, egli udi le nostre boci, et fece chiamare et fare el comandamento, che noi andassimo a lui; et cosi come io ho ditto di sopra, neuno s'osava appressarsi a lui al carro suo a una gittata di mano, se non era chiamato, altri che quegli che guardavano lui; et quando noi andamo da lui con la croce levata, incontenente egli si levò el capello di valore inestimabile, et fece riverentia a la croce, et incontenente io misi de l'incenso nel teribolo, et diedilo in man al Vescovo, et egli gli diede de l'incenso. Et tutti quanti che vanno a lui, sempre portano seco alcuna cosa da donargli, osservando quella legge antica che dice: Non appropinquabis in conspectu meo vacuus. Imperò portamo con noi alquante pome, et quelle in su uno taglieri gli presentamo con grande riverentia. Et egli ne tolse due et mangione un poco dell'una. Et poscia il Vescovo nostro gli die la sua beneditione; et fatto questo, egli ci fece segno che ci partissomo, acciochè e cavalli et la moltitudine della giente che venia di dietro a lui, non ci offendesse. Et incontenenle da lui ci partimo et venimo ad alquanti de' suoi baroni, e quali sono convertiti a la fé nostra per quegli nostri Frati, e quali erano nello slato del Gran Cane, et presentamogli di quelle pome, et eglino con grande alegrezza ricevendole, cosi si pareano alegrare come se noi gli avessimo fatto un grande dono. ...»

L’opera missionaria a Pechino stava dando buoni frutti, ma per bene operare sarebbe stato molto utile che ci fossero più missionari: più volte, Giovanni da Montecorvino aveva inviato al Papa - senza grandi risultati - delle missive con la richiesta di nuovi missionari: fu così che ad un certo momento decise di chiedere a frate Odorico di ritornare in Europa per chiedere di persona al Pontefice di concedere l’invio di rinforzi alla missione. Odorico accettò di buon grado il carico del lungo e faticoso viaggio, senza rendersi conto che avrebbe lasciato per sempre quei luoghi.

Intrapresa nel 1327-1328 la via del ritorno in Occidente per procurare altri missionari, attraversò pare le province di Shanxi [capitale Taiyuan], Shaanxi [capitale Xi’an], Sichuan [capitale Chengdu): Ma seguiamo il nostro Odorico: dopo cinquanta giorni di cammino per valli e monti, città e villaggi, va nel paese di Prete Gianni, il misterioso principe che fu argomento di tante leggende e di tante ricerche.

«...Partendomi di questo Gataio, venendo verso il Ponente cinquanta giornate, passando per molte contrade et terre, venni verso le terre di Prete Gianni, di cui no è quasi delle cento parti l'una che si dice di lui: la sua cittade principale se chiama Ghosan; et è bene Vicenza migliore di quella; et ae molte altre cittade sotto lui, et sempre per patto tole moglie la figliuola del Gran Gane..».

Anche qui c’è una conferma dei racconti di Marco Polo, il quale sostiene che nelle regioni occidentali della Mongolia Interna era stato fondato nel 762 d.C. il Regno dell’Orkhon: questo regno aveva protetto la presenza dei cristiani ed il re aveva assunto anche la guida del movimento nestoriano. Egli sarebbe divenuto la figura istituzionale di «Prete Gianni» e l’avrebbe trasmessa a propri successori ed eredi. Gengis Khan avrebbe poi sconfitto il Prete Gianni sottomettendo il suo regno ed - aggiunge Marco - che un discendente del Prete Gianni, di nome Giorgio ma che portava lo stesso titolo di Prete Gianni, regnava ancora ai suoi tempi come vassallo del Khan mongolo. Era questo Re Giorgio che Frate Giovanni di Montecorvino afferma di aver convertito nel 1292.

 (vedi anche: Baudolino, Marco Polo e il mitico regnodel Prete Gianni)

Dalla terra di Prete Gianni, andò parecchie altre giornate, e pervenne alla fertile e popolata provincia di Gasan.

«...Partendomi di quivi, per molte diete venni a una provincia che si chiama Gasan [è una regione che comprende parte delle odienre province del Shaanxi, Gansu e Sichuan]. Questa sì è la seconda migliore provincia che sia nel mondo et la meglio abitata: dov'ella è più stretta, è ben larga cinquanta giornate et lunga più di sessanta. Et questa è provincia sì bene abitata che quando si vae fuori delle porte d'una città, si vede le porte de l'altra cittade. In questa si è gran copia di vettuaria et specialmente di castagne. In questa contrada nasce il reobarbaro, et vi n'è sì gran derrata che per meno di sei grossi [moneta veneta] se ne charicherebbe uno asino: et questa provincia si è l'una delle sette parti del Gran Gane...»

E qui la cosa più incredibile: dal Gasan pare che il nostro frate Odorico sia passato addirittura per il Tibet:

«...Partendomi di questa provincia, venni a uno grande regno che si chiama Tibot, che l'è confine de l'India; et questo regno si è sottoposto tutto al Gran Cane. In questo si è maggior copia di pane et di vino che sia ih lo mondo. La giente di questa contrada stanno nelle tende, che sono di feltro nero. La sua principale et regale cittade è tutta fatta di muri bianchi et neri, et tutte le vie di quella sono tutte perfettamente mattonate ; et in questa cittade no è ardito di spargere sangue umano, ne di bestie, a riverentia d'una sua idola, la quale egli adorano ...»


Il nostro eroe si ferma a Lhasa, di cui dà una breve descrizione:

«...In questa città dimora lo Abiffo, cioè lo Papa in sua lingua; et questo si è el capo di tutte quelle idole , a' quali secondo la loro usanza dà et distribuisce tutti gli lor benefici, e quali egli hanno. In questo regno si ha questa usanza, che le femine portano più di cento treccie, et hanno in bocca duo denti lunghi, com'ae el porco salvatico. In questa contrada si è un'altra usanza. Pognamo ch'el padre di alcuno fosse in caso di morte, et il figliuolo dirae: Io voglio fare onore al mio padre. Et sì farà convocare tutti e preti, religiosi et lutti e giucolari della contrada, et parenti et vicini, et si lo portano con grande alegreza a la campagna; et ivi sì è apparecchiato uno grande desco, in su lo quale e preti gli tagliano el capo; et si Io dà al figliuolo suo; et allora il figliuolo con tutta la sua compagnia, cantano et fanno assai orationi per lui; et poscia e ditti preti tagliano in pezzi tutto questo corpo: et quando hanno così fatto, si partono, et reduconsi in su con tutta la lor compagnia et fanno oratione per lui. Dopo queste cose vengono le aguile, et gli avoltoi di suso e monti, et ciascuno se ne porta seco lo suo pezzo. Et allora tutti gridano ad alta boce et dicono: Vedete che uomo era costui: egli era santo. Vedete anche gli agnoli di Dio lo portano a Paradiso, Et così facendo, lo figliuolo si tiene molto onorato, perch'el padre suo è portato cosi onoratamente da gli agnoli di Dio. Allotta el figliuolo tole il capo del padre et sì lo cuoce et manuchalo, et della testa, overo de lo osso, se ne fa fare uno bicchieri, con lo quale egli e tutti quegli di casa sua beono sempre con devotione in memoria del

padre suo eh' è morto. Et facendo così, dicono che fanno grande reverenda al padre suo; onde molte altre cose sozze si fanno da queste gienti. ...»


Quindi frate Odorico da Pordenone si può considerare il primo italiano e probabilmente il primo occidentale in assoluto che sia penetrato nel Tibet ed abbia visitato Lhasa, lasciandoci una descrizione sia del Gran Lama, capo spirituale dei tibetani, sia dei loro costumi: in particolare il nostro deve essere rimasto molto colpito dalle usanze funerarie. Alla morte, ai tibetani viene impartita la cremazione o il «funerale del cielo»; si ritiene che questo rito (non usato in tutto il Tibet) porti al sicuro in paradiso lo spirito del defunto. Prima di questo funerale il cadavere è avvolto in un telo bianco e tenuto in casa per diversi giorni mentre i lama cantano sutra onde alleviare le pene per i peccati commessi in vita dal defunto. Il giorno del funerale arriva in casa uno smembratore che trasporta il cadavere al luogo sacro destinato ai funerali, immediatamente seguito dagli amici e da un lama. Lo smembratore fa a pezzi il cadavere e poi chiama gli avvoltoi perché lo divorino. Le ossa vengono abbandonate lì, a cielo aperto. I tibetani credono che gli avvoltoi abbiano il potere di portare in paradiso lo spirito del defunto. Nel caso che essi non mangino il cadavere, o ne divorino soltanto una parte, si ritiene che il morto abbia commesso peccati gravi e che di conseguenza sia condannato alla permanenza in uno degli inferni buddisti. Se invece gli avvoltoi divorano ogni parte del corpo o almeno la maggior parte di esso, l'anima procede verso una rinascita più pura.

Dal Tibet, le tracce di frate Odorico nella via del ritorno si perdono un poco: sceso probabilmente  in Afghanistan per la valle dell’Indo, passa in Persia dove racconta della contrada di Millestorte, regno del famosissimo Vecchio della Montagna (1) , di cui descrive l'incantato palagio, le perfide azioni, e la rumorosa caduta. Infine, costeggiando il mar Caspio arriva in Crimea da dove si imbarca per Venezia.


Particolare del''arca funebre del beato Odorico
Come sia andata a finire la vicenda umana di frate Odorico di Pordenone lo abbiamo già raccontato: resta solo da dire che nel 1755 il papa Benedetto XIV lo ha proclamato beato e attualmente è in corso il processo di canonizzazione.

(1) Questa storia, raccontata anche da Marco polo nel Milione, racconta di un luogo protetto da un castello fra le montagne (pare in Persia)  in cui il capo (asan-i abbā) aveva creato un paradiso terrestre con cibo e divertimenti come quelli descritti da Maometto, con vino latte e miele e dove i giovani da lui selezionati provavano tutti i piaceri della vita. Da questo luogo i predestinati potevano entrare e uscire solo profondamente addormentati. Quando il Vecchio aveva bisogno di un assassino, faceva cadere in un sonno profondo tramite hashish (da cui il termine «assassini») oppure oppio un adepto e lo faceva svegliare fuori dal «paradiso». Il malcapitato disperato e confuso, sarebbe potuto rientrare solo dopo aver portato a termine la propria missione e quindi avrebbe fatto tutto quanto richiestogli.


Fonti:

http://it.wikipedia.org/wiki/Odorico_da_Pordenone#
http://www.archive.org/stream/sopralavitaeivia00dome#page/16/mode/2up

sabato 3 dicembre 2011

I missionari gesuiti primi esploratori del Tibet e il mito di Shambhala

Shangri-La è il nome di un luogo immaginario di cui si parla nel romanzo Orizzonte perduto, scritto da James Hilton nel 1933. Il romanzo descrive un luogo racchiuso nell'estremità occidentale dell'Himalaya nel quale si vedevano meravigliosi paesaggi, e dove il tempo si era quasi fermato, in un ambiente di pace e tranquillità. Shangri-La era organizzato come una comunità perfetta, da cui erano bandite, non a norma di legge ma per convinzione comune, tutta una serie di umane debolezze (odio, invidia, avidità, insolenza, avarizia, ira, adulterio, adulazione e via discorrendo), facendone un eden materiale e spirituale in cui l'occupazione degli abitanti era quella di produrre cibo nella misura strettamente necessaria al sostentamento e trascorrere il resto della giornata nell'evoluzione della conoscenza interiore della scienza e nella produzione di opere d'arte.

Nella sua fiction Hilton prende comunque spunto da testimonianze realmente accadute, tra cui in particolare i racconti del portoghese missionario gesuita Antonio de Andrade e dei suoi confratelli Casella e Cabral, che parlano di un mitico luogo, chiamato da loro Shambhala [Shangri-La è il nome che Hilton ha usato] . Troviamo un riferimento a questo missionario, quando il protagonista del romanzo, Conway, trova nella biblioteca del monastero di Shangri-La una copia del libro di de Andrade Novo Descobrimento do gram Cathayo, ou Reinos de Tibet, pello Padre Antonio de Andrade da Companhia de Jesu, Portuguez, no anno de 1626, testo che, pubblicato a Lisbona, fu il primo documento redatto in una lingua europea, che parlasse della regione che noi chiamiamo ora Tibet.

E adesso - come avrete già capito - vi racconto la storia di Antonio de Andrade e dei suoi confratelli e di ciò che la loro avventura ha innescato, con conseguenze che tuttora durano!

Il primo europeo che aveva raggiunto l’India via mare era stato l’esploratore portoghese Vasco de Gama che era sbarcato a Calicut, nella costa sud-occidentale nel maggio del 1598. I missionari gesuiti che lo avevano seguito nella sua avventura ebbero notizia di cristiani che vivevano da qualche parte nel nord del sub-continente indiano, sulle montagne dell’ Himalaya o sull’altopiano tibetano: che fossero i discendenti delle comunità di nestoriani migrati in oriente secoli prima o addirittura seguaci del mitico Presbyter Johannes ( il Prete Gianni di Baudolino), naturalmente i missionari furono subito interessati a venire in contatto con questi supposti correligionari. Un gesuita portoghese, tal Antonio de Andrade decise di verificare queste dicerie.

(vedi: Un prete di nome adamo alla corte dei Tang )
(vedi anche: Baudolino, Marco Polo e il mitico regnodel Prete Gianni )

De Andrade era nato ad Oleiros, in Portogallo, nel 1580 e nel 1595 era entrato nella Compagnia di Gesù: quattro anni più tardi, a soli 19 anni, era stato mandato in India, dove nel giro di pochi anni divenne capo di tutte le missioni nei territori del Gran Mogul dell’Indostan.

Nella primavera del 1624, mentre era a Dehli, de Andrade venne a sapere che un grande gruppo di fedeli indù stava partendo per un pellegrinaggio verso un tempio arroccato sui monti della Himalaya. Pensò che accompagnare i pellegrini fosse un ottimo pretesto per visitare quella regione a quel momento inesplorata dagli europei. De Andrade ed un suo compagno gesuita, Manuel Marques, passandosi per indù, partirono con la carovana dei pellegrini nell’Aprile del 1624. Ma lungo la strada che portava alle sorgenti del fiume Gange, furono scoperti e denunciati come spie. Confessarono che erano in missione per raggiungere il Tibet: inizialmente le autorità avevano deciso di non farli proseguire, ma dopo aver constatato che erano degli eccentrici non pericolosi, li lasciarono proseguire, non prima però di avere ricevuto dei cospicui «doni» in cambio. All’inizio di Giugno la carovana arrivò a destinazione, al sacro tempio di Badrinath, a più di 3000 metri di altezza, uno dei posti di pellegrinaggio più venerati tra gli Indù.


il tempio di Badrinath
L’atteggiamento di de Andrade nei confronti dei pellegrini indù, dei quali peraltro utilizzava la compagnia ed il supporto era intollerante e decisamente poco cristiano. Nella sua prima relazione scriveva:

«Essi [i pellegrini indiani] salivano camminando l’un dopo l’altro (il sentiero non permetteva di andare in due) gridando continuamente grandi evviva al loro idolo con le parole Ye Badrynate ye ye […] Noi udivamo con grande dolore queste voci dell’inferno, e poiché non potevamo prenderci altra vendetta del maledetto idolo, gli scagliavamo con la medesima frequenza altrettante maledizioni [… Spesso] trovavamo delle pagode per lo più sontuosamente lavorate, illuminate con lampade e tutte di diversa forma, ma tutte abominevoli e ridicole. Addetti al loro servizio vi sono molti yoghi che dall’aspetto stesso mostrano di essere ministri del diavolo. [… Con uno di questi] avrei voluto fare ciò che due mesi prima il nostro re aveva fatto ad un altro yoghi [irriverente nei confronti del sovrano]. Il re diede ordine che gli fosse portato trascinato a terra pei capelli e, avutolo dinnanzi, gli disse che era il diavolo o una sua immagine viva […] Poi ordinò [vari castighi e frustate]. Altrettanto, io pensavo, si doveva fare allo yoghi cui accennai sopra.»

Questo era l’atteggiamento tracotante che questi uomini della controriforma avevano nei confronti della religione indù: lo stesso accadde quando presero contatto col buddhismo tibetano: incomprensione e qualche volta violenza segnano questa pagina dell’avventura iberica extraeuropea, come tante altre del resto. Al centro delle preoccupazioni dei missionari stava l’obiettivo di sradicare una fede che non riuscivano a capire. Senza adeguate conoscenze linguistiche, affidandosi alle intuizioni ed ai servigi d’interpreti improvvisati, i coraggiosi e ingenui sacerdoti restarono ciechi di fronte alle ricchezze spirituali che si dispiegavano innanzi a loro, un immenso edificio filosofico, simbolico, mistico, distillato in secoli e secoli di travaglio intellettuale e di ricerca interiore … e i primi europei a contemplarlo non seppero discernervi che riti barbarici, al più grossolane imitazioni del Cristianesimo.

il villaggio di Mana

Ma torniamo alla nostra storia: ovviamente Badrinath non era la meta di de Andrade. Giunto là, si spinse da solo a nord verso il villaggio di Mana, l’ultima tappa prima del Passo di Mana alto 5400 m, che consentiva l’accesso al Tibet. Qui incontrò dei mercanti della terra di Bhot (nome con cui gli indù chiamavano il Tibet) da cui ottenne indicazioni su come muoversi in quella sconosciuta regione. Tornato a Badrinath, de Andrade fu informato che il governatore locale,il Rajah di Srinagar, gli aveva formalmente proibito di proseguire. Ma lui decise di ignorare il divieto e con due guide locali e si avviò verso il passo, pur sapendo che la stagione non era propizia ed erano attese abbondanti nevicate. Al terzo giorno di viaggio, dei messaggeri raggiunsero il piccolo gruppo con brutte notizie: le autorità avevano arrestato la mogli ed i figli delle guide di Mana e minacciavano di ucciderli se non fosse tornato. Le guide ovviamente se ne tornarono al paese, ma de Andrade, con la cocciutaggine che avrebbe caratterizzato molti altri esploratori del Tibet, decise comunque di proseguire con i suoi due servitori.

Il passo di Mana
Ma presto arrivò il maltempo: la neve arrivò loro alla cintola, poi alle ascelle, e furono obbligati a bivaccare all’aperto. Tutti e tre manifestarono sintomi di congelamento, ma caparbiamente riuscirono a raggiungere il passo di Mana. «Era tutto bianco ed abbagliante per i nostri occhi accecati dal riverbero della neve – annotò de Andrade – e non trovavamo traccia del sentiero che avremmo dovuto seguire». L’immenso altopiano del Tibet si allargava tentatore davanti ai tre temerari, ma i due servi erano troppo deboli per proseguire e fu così che de Andrade ordinò loro di tornare al villaggio di Mana (circa sei giorni di marcia!) per cercare dei rinforzi per poter proseguire: lui sarebbe rimasto accampato al passo fino al loro ritorno. Ma i servitori, saggiamente, si rifiutarono di tornare indietro senza di lui. I tre sarebbero probabilmente morti assiderati se non avessero incontrato, dopo tre giorni di marcia, un tibetano che era stato inviato verificare la loro sorte: gli abitanti del villaggio di Mana temevano infatti di essere ritenuti responsabili di una eventuale disgrazia che fosse accaduta ai viaggiatori stranieri.

Così de Andrade si rassegnò ad attendere a Mana che il clima fosse più propizio: riuscì però a mandare oltre il passo - tramite dei nativi molto esperti dei luoghi - un messaggio al sovrano del Tibet. Pensando che fosse un mercante straniero, probabilmente in possesso di beni esotici, il re non solo invitò il gesuita a raggiungerlo, ma gli inviò anche due guide esperte per condurlo da lui oltre il famigerato passo. Non si sa molto di questo viaggio, ma sicuramente de Andrade fu il primo europeo a raggiungere il Tibet dall’India, mettendo finalmente piede nella città di Tsaparang, nell’Agosto del 1624.

Ciò che resta di Tsaparang
In un primo tempo, il re non fu entusiasta di scoprire che de Andrade non era un commerciante ma il rappresentante di una religione diversa dal buddhismo, ma dopo che il nostro gli ebbe raccontato che era venuto là alla ricerca di suoi correligionari che si credeva vivessero da qualche parte in Tibet e per conoscere inoltre la religione del luogo, si calmò. Essendo il re una persona profondamente religiosa, fu colpito dal fatto che de Andrade avesse rischiato la vita per la sua missione: autorizzò il gesuita a costruire un «casa di preghiera» cristiana a Tsaparang, e non lo lasciò ripartire fino a quando si impegnò a ritornare l’anno successivo. De Andrade quindi – con un passaporto ed una lettera di presentazione del re – se ne tornò al villaggio di Mana, per poi proseguire per il suo quartier generale ad Agra, dove arrivò nel Novembre 1624. Là portò a termine un rapporto sul suo viaggio, il già citato Novo Descobrimento do gram Cathayo .

Da commercianti cinesi arrivati a Tsaparang con the, porcellane ed altre mercanzie, de Andrade aveva imparato molte cose riguardo alla geografia dell’ immenso «tetto del mondo» a nord della Himalaya «il regno del Tibet - scriverà – comprende numerosi piccoli regni, incluso il reame di Guge, di cui Tsaparang è la capitale.» Si era fatto l’idea che questi vari regni, assieme al “grande impero di Sopo” [Mongolia] che confina da una parte con la Cina e dall’altra con la Moscovia [Siberia], fossero tutti parte della «Grande Tartaria», cioè il grande impero Mongolo fondato da Gengis Khan che all’apice del suo sviluppo controllava gran parte del Tibet e che dopo la caduta della dinastia Yuan in Cina nel 1368 e la frantumazione delle province occidentali, si fossero resi indipendenti.

De Andrade rispettò la promessa di tornare a Tsaparang: lasciò Agra nel Giugno del 1625 e - depredato nuovamente dei suoi beni dai rapaci funzionari delle giurisdizioni attraverso cui doveva passare - arrivò in Tibet a fine Agosto. Forse non avevano capito nulla del Buddhismo tibetano, ma molto più abili si mostrarono i missionari nel cogliere le tensioni del quadro politico locale: nel periodo dell’arrivo dei missionari a Tsaparang, erano in corso lotte di potere che opponevano il re al fratello, lama principale di Guge, ed altri congiunti appartenenti all’ordine monastico, così de Andrade riuscì ad impiantare la missione, con il favore del sovrano, desideroso di contrastare le ingerenze delle autorità religiose nella sua conduzione del regno.

Uno dei motivi per cui de Andrade era voluto entrare in Tibet era l’ipotesi che in quella regione ci fossero delle presenze cristiane: a Tsaparang, venne però a sapere che in nessuno dei regni tibetani si era mai avuto notizia di comunità cristiane. Forse l’origine di queste voci era dovuta all’apparente somiglianza di alcuni riti cristiani e tibetani e dalla errata traduzione di alcuni termini chiave della dottrina. Ad esempio i «Tre Tesori» del buddhismo (Buddha, Dharma e Sangha) potevano essere confusi con la Trinità (Padre, Figlio e Spirito Santo) cristiana. Ma la assenza di cristiani in Tibet non dissuase, come è ovvio, de Andrade dal fare proseliti: in accordo con la promessa del re –che gli aveva concesso la possibilità di costruire un casa di preghiera – nel giorno di Pasqua del 1626 venne posata la prima pietra della prima chiesa cristiana in Tibet.

La notizia della presenza a Tsaparang di un «Lama dell’Occidente» si diffuse rapidamente attraverso l’altopiano tibetano. L’anno successivo il re di Utsang invitò de Andrade a visitare la sua capitale, Shigatse, che distava un mese di viaggio da Tsaparang. De Andrade, che in quel periodo stava fondando un’altra missione in Himalaya a più di 300 km di distanza da Tsaparang, non fu in grado di onorare l’invito del re di Shigatse. Tuttavia egli aveva già informato i suoi superiori già da un anno che il regno di Utsang poteva essere terreno fertile di missione e che tuttavia un tentativo di raggiungere quella sconosciuta regione andava fatto partendo dal Bengala, nell’India Orientale.

Così il 26 Agosto 1626 i missionari gesuiti portoghesi Estêvão Cacella e João Cabral partirono da Hugli, una base gesuita che si trovava su un ramo del delta del Gange nel territorio dell’ odierno Bangladesh. Viaggiarono verso nord, oltrepassando la città di Dhaka e arrivarono alla città di Cooch Behar nel Bengala occidentale il 28 Ottobre. Trascorsero là l’inverno e nel febbraio 1627 ripresero il camino verso la città di Alipur Duar, una delle cosiddette «porte» di accesso alle pendici della Himalaya, ed attraversarono gli odierni confini del Bhutan vicino a Buxa Duar, divenendo così i primi europei ad entrare in questo isolato regno himalayano. Nella primavera del 1627 i due raggiunsero la città di Paro, e poi volsero verso Thimphu, la capitale del Bhutan, dove incontrarono il re presso il monastero di Changangkha [ancora oggi esistente]. Il re non aveva mai incontrato degli europei ed all’inizio le cose non andarono molto bene: gli interpreti indù dei missionari non parlavano la lingua locale e l’udienza sarebbe stata un completo fallimento se non ci fosse stata l’apparizione fortuita di un lama di Tsaparang, che parlava un poco l’indostano e il dialetto locale e quindi poté fare da interprete. Il re trovò la conversazione interessante e avrebbe voluto continuare a lungo: alla fine decise di assegnare ai missionari dei tutori che insegnassero loro la lingua locale in modo da poter parlare direttamente con loro. I gesuiti si fermarono là parecchi mesi.
Il monastero di Changangkha

Oltre che studiare la lingua (cosa che si rivelò un disastro per mancanza di insegnanti competenti) e le pratiche religiose dei bhutanesi, i due missionari fecero anche delle ricerche geografiche. Cacella scoprì che nessuno dei locali aveva mai sentito parlare di Cathai o Cina, ma aggiunse:

«esiste un paese, molto famoso da queste parti, che è chiamato Xembala che confina con un altro chiamato Sopo [Mongolia], sulla cui religione, però il re non è stato in grado di fornire informazioni».

Cacella nel frattempo era dubbioso sul possibile successo del lavoro missionario in Bhutan, chiese al re di poter andare col suo compagno Cabrel a visitare i gesuiti di Tsaparang: preoccupato dalla insinuazione che questi visitatori, che lui considerava propri ospiti, potessero trovare una accoglienza più favorevole in un regno rivale, il re promise loro di costruire un «casa di preghiera» simile a quella che il re di Guge aveva concesso a Tsaparang. Cacella a quel punto rinunciò ad andare a Tsaparang, ma decise invece di andare a Xembala, che lui pensava essere il Cathai. Bisogna ricordare che molti europei, a quel tempo, ancora credevano che il Cathai, il paese raggiunto dai mercanti attraverso la Via della Seta e la Cina, sulle cui coste orientali erano sbarcati i portoghesi nel 1514, fossero due paesi differenti. Ma il re vietò a Cacella di fare anche quel viaggio, che implicava di transitare per il regno di Utsang, già noto ai due gesuiti grazie alla loro corrispondenza con Tsaparang. Cacella allora si procurò di nascosto guide ed equipaggiamento e lasciò il Bhutan da solo, lasciando il suo compagno che fu catturato e tenuto in ostaggio dal re: non abbiamo notizie certe di quel viaggio, ma sappiamo che raggiunse Shigatse, la capitale dello Utsang, circa venti giorni dopo.


Shigatse
Qui riuscì a farsi ricevere dal re di Utsang, che gli diede il benvenuto e gli fornì un invito anche per il suo compagno Cabral. Il re del Bhutan si era molto adirato per la fuga di Cacella, ma alla fine si calmò e concesse a Cabral di lasciare il paese. Cabral raggiunse Cacella a Shigatse il 20 gennaio. Cacella rimase 23 anni a Shigatse, dove morì nel 1630. I lama avevano maturato un grande rispetto per lui, tanto da offrirgli di accompagnarlo in questo posto segreto, Shambhala.

In una lettera da Shigatse, Cabral fornisce, oltre la descrizione del re, dei lama e dei templi e dell’ambiente locale, alcune informazioni geografiche più ampie:

«Al nord, il regno di Utsang, confina col territorio dei Tartari, con cui il re è spesso in conflitto; la religione dei due paesi sembra essere la stessa. Verso est c’è la Cochinchina da cui arrivano molte merci, come del resto anche dalla Cina, che confina a nord-est. Xembala, a mio giudizio non è il Catayo, ma ciò che nelle nostre mappe designiamo come Grande Tartaria, il Catayo è più a nord.»

Questa lettera sembra essere la prima testimonianza dell’esistenza di Xembala, scritta in una lingua europea. Ecco come i tibetani lo descrivono:

Il regno di Shambhala ha la forma di un gigantesco fiore di loto ad otto petali: intorno al perimetro esterno del loto c’è una catena circolare di alte montagne innevate. Tra gli otto petali del loto ci sono otto catene montuose più basse lungo cui scorrono i fiumi di Shambhala.


Mappa di Shambhala
Ognuno degli otto petali che compongono la parte esterna di Shambhala contiene 120 milioni di villaggi: questi 960 milioni di villaggi sono raggruppati in reami da 10 milioni di villaggi ognuno ed ogni reame è retto da un starapo, per un totale di 96 satrapi. Gli abitanti di questi innumerevoli villaggi sono ricchi, felici e non soffrono di malattie . Tutti i prodotti per l’uso quotidiano sono prodotti spontaneamente e senza fatica. I satrapi sono persone molto religiose e ed insegnano i principi del Kalachakra ai loro sudditi: in queste terre infatti, non esiste il male e le parole «guerra» e «ostilità» sono sconosciute; la felicità e la gioia competono con quelle degli dei e la gran parte degli abitanti di Shambhala raggiunge la buddhità nella propria vita.


Kapala, la capitale
La zona centrale di Shambhala, è circondato da un ulteriore anello di colline, all'interno di cui c’è Kapala, la capitale, che misura dodici leghe in larghezza. Nella città si trovano dei magnifici palazzi decorati con metalli preziosi, oro, argento e gemme, smeraldi, turchesi, coralli, perle. Specchi sulle pareti dei palazzi creano giochi di luce, e lucernari di cristallo nei soffitti permettono alle persone di osservare la luna, i pianeti e tutte le stelle della sfera celeste.


Il palazzo del re
Il palazzo del Re è quadrato ed ha quattro porte: lungo i muri perimetrali su un bordo di corallo, danzano delle figure divine, in alto c’è uno striscione con la ruota del Dharma e due cervi, maschio e femmina su ogni lato. Ci sono inoltre tre anelli che circondano il palazzo, rendendolo particolarmente bello. Ha anche una modanatura dorata con appesi ornamenti di perle e diamanti. nella parte superiore delle pareti esterne sono appesi ciondoli d’argento e architravi sporgenti color turchese. Le sue finestre sono di lapislazzuli. Le porte e architravi sono di smeraldi e zaffiri. Ha tende d’oro, le stanze hanno soffitti di gioielli e di cristalli che producono calore, mentre i pavimenti sono di cristalli che producono freddo.

Il Re di Shambhala siede su un trono d’oro, indossa la veste del re universale del Dharma, ha un copricapo fatto dalla criniera di un leone, ornato con le immagini dei cinque Buddha trascendenti. indossa orecchini e bracciali d’oro Sia il suo corpo che i suoi ornamento emanano una luce bianca e rossa accecante. A circondare il re ci sono i suoi ministri, i generali, le guardie del corpo, gli elefanti con i loro guardiani ed i guerrieri. La sua prima concubina è la figlia di uno dei 96 satrapi di Shambhala, ma il Re ha molte altre concubine e molti figli e figlie.

A sud del palazzo reale c’è un boschetto di alberi di sandalo e nel mezzo del bosco c’è un enorme mandala tridimensionale Kalachakra, costruito dal primo re di Shambhala con oro,argento, corallo e perle.

Cabral tornò nel 1628 in India e tornò a Shigatse nel 1631, dove apprese che Cacella era morto l’anno precedente: alla fine però le autorità dei gesuiti decisero che la missione in Tibet era troppo costosa e pericolosa, considerando lo scarso successo della evangelizzazione, richiamarono sia Cabral che Andrade, chiudendo così la attività missionaria in quella regione.

Anche se Andrade non menziona mai Shambhala, né come posto fisico, né come posto mitico, il gesuita ha contribuito in qualche modo alla diffusione della leggenda. In primo luogo, ha aperto dall’India la via verso il Tibet ed il suo viaggio innescò quello degli altri due gesuiti Cabral e Casella, che invece riferirono di aver sentito parlare di un posto che probabilmente corrispondeva a Shambhala.

La descrizione del fantastico mondo di Shambhala è densa di iperboli tipiche della cultura buddhista, tuttavia non meraviglia che le notizie attorno a questo eden abbiano scatenato la curiosità di tante persone. A tutt’oggi però gli «shambhalisti» non sono riusciti a chiarire se Shambhala sia stato un vero grande reame o piuttosto una piccola oasi, una valle sperduta o addirittura un singolo monastero. È possibile infine che Shambhala non sia un posto fisico bensì un reame dello spirito. Nelle scritture buddhiste infatti abbondano del citazioni e la fede in una «terra pura» dove l’insegnamento del Buddha viene vissuto integralmente da monaci e laici.

Il successo del romanzo di Hilton ha dato origine al mito: così sognatori, avventurieri ed esploratori provarono a trovare questo paradiso perduto. L'onda orientalista dell'Occidente fu ispirata dal mito, e così il nome di Shangri-La è stato utilizzato non solo da gruppi musicali e teosofi, ma anche da molti luoghi di villeggiatura in Asia e perfino in America.


Zhongdian
Parecchie amministrazioni, mosse da interessi meno ideali, sostengono di essere la regione geografica descritta da Hilton e di essere così il mitico luogo ispiratore della misteriosa Shangri-La. Nel 2001 il governo cinese – mosso dal suo incrollabile pragmatismo - ha dichiarato Zhongdian, una cittadina arroccata nei monti della regione di Yunnan, al confine col Tibet, la vera Shangri-La, promuovendone in modo significativo lo sviluppo turistico. Nelle vicinanza c'è il monastero di Hong Po Si, dove vivono una sessantina di monaci e cinque lama.


Se ci andate, non dimenticate di soggiornare nell’ albergo Shangri-La: è proprio in centro ed ha camere spaziose e pulite per la modica somma di 200 yuan (circa 10€) al giorno ... ah, dimenticavo, c’è anche una ottima pizzeria gestita da Marco, un italiano, innamorato del luogo e di una bella cinesina!

fonti:

http://www.travelmundis.com/Alla%20ricerca%20dello%20Shangri-La.htm
http://www.ippolito-desideri.net/andrade.html
http://en.wikipedia.org/wiki/Est%C3%AAv%C3%A3o_Cacella
http://www.viaggiscoop.it/diari_di_viaggio/asia/cina/diario_di_viaggio_cina_5160.ashx

giovedì 17 novembre 2011

I soldati romani in Cina duemila anni fa...ma non da conquistatori!


Nella piazza del villaggio di Liqian, nella Prefettura di Yongchang, provincia di Gansu, non è raro vedere una dozzina di abitanti del villaggio, dall’aspetto marcatamente occidentale, indossare armature e scudi e intrattenere i tanti turisti. E’ difficile pensare che un remoto villaggio nel nord-ovest della Cina, sia abitato da persone dai tratti somatici occidentali, che improvvisino antiche danze e parate militari romane, ereditate dai loro antenati.



La prefettura di Yongchang nel Gansu
Situato lungo la Via della Seta, la rotta commerciale più importante dell’Asia - che già duemila anni fa collegava attraverso settemila chilometri l’Europa all’Asia - il paese venne alla ribalta nel 1990, quando alcuni archeologi trovarono i resti di un antico forte romano e constatarono che molti abitanti avevano marcati lineamenti occidentali. Nel 1999, il villaggio, precedentemente denominato Zhelaizhai, è stato rinominato Liqian. Secondo i documenti storici cinesi infatti, Liqian era il nome che gli antichi cinesi avevano dato all’Impero Romano. I resti del forte sono attualmente circondati da catene. Un monumento è stato eretto vicino ai suoi resti per raccontare la sua storia e la recente costruzione di un padiglione in stile romano si erge nei pressi del monumento.

Con gli occhi verdi infossati e un lungo naso adunco, Luo Ying, 35 anni, ha un aspetto europeo che gli è valso il soprannome di “principe romano”, da parte dei suoi compaesani. Nel 2005, test del DNA hanno confermato che alcuni degli abitanti del villaggio erano di origine straniera.

Vediamo di capirci qualcosa …

Intorno alla metà del I secolo a.C. profonde divisioni lacerano l’Asia centrale: Hu Hanye e Zhi Zhi due fratelli appartenenti ad una tribù dell’etnia Xiongnu (quelli che noi chiameremo Unni), da tempo immemore predoni sul confine cinese, si disputano il titolo di Shan Yu (re). Dalla lotta per il potere di due fratelli nasce una sorta di guerra civile: una parte del popolo segue Hu Hanye, che si accorda con la Cina, una parte invece segue l'altro fratello. Sconfitto dal generale cinese Cheng Tang, Zhi Zhi viene catturato e messo a morte nel 35 a.C., I suoi seguaci sono costretti a fuggire verso ovest nelle steppe dell’Asia centrale. Un secolo e mezzo dopo la morte di Zhi Zhi, questo misterioso popolo, ormai mescolato a diverse altre razze, è nella zona del mar Caspio.

La notizia interessante di questa storia - che non ha nulla di originale - tramandataci dalle cronache cinesi, è che la guardia del corpo di Zhi Zhi era composta da uomini di un'altra razza, capaci di usare una complessa tattica di difesa, ottenuta mediante la sovrapposizione degli scudi, in un modo che ricorda la testudo romana.

Lo storico Homer Dubs vede in quei mercenari dei soldati romani superstiti della battaglia di Carre, condotta da Crasso nel 53 a.C contro i Parti in Asia Minore. Da Plinio il Vecchio sappiamo che in quella battaglia, che si concluse anch'essa con una sonora sconfitta romana, 10.000 romani furono catturati dai Parti e trasportati nella Margiana, un territorio nell'attuale Turkmenistan. Secondo questa versione i legionari, una volta sotto l'impero cinese, avrebbero fondato il villaggio di Liqian, nel nord-ovest della Cina; questa teoria è suggerita da vari indizi, tra cui lo stesso nome del villaggio (uno dei diversi modi del cinese antico per indicare Roma) ed i caratteri etnico-antropologici degli abitanti dell'area su cui sorse il villaggio, diversi da quelli cinesi. Tuttavia non sono state trovate evidenze archeologiche né chiare prove genetiche sugli abitanti attuali; gli scettici sostengono che il nome Liqian sarebbe solo foneticamente uguale al nome cinese della città di Roma ed avrebbe diverso significato, e che anche il riferimento nelle cronache alla formazione "a scaglie di pesce" dei soldati potrebbe riferirsi genericamente ad una disposizione molto serrata delle file della fanteria, piuttosto che alla tecnica romana della testuggine.

Nel novembre del 2010, è stato istituito presso la Lanzhou University di Gansu, il «Centro Italiano Studi», che vedrà Italia e Cina impegnate in una ricerca per svelare questo mistero. Il professor Yuan Honggeng, capo del centro, ha detto che spera di provare la teoria, scavando per scoprire ulteriori prove del primo contatto della Cina con l’Impero Romano lungo la Via della Seta. ”Speriamo di svelare il mistero delle legioni romane perdute”, ha dichiarato Yuan.

Nel mese di agosto 2010, un nuovo complesso costruito in stile architettonico romano è stato creato per soddisfare i visitatori, e mentre un produttore cinematografico di Pechino ha in programma di spendere milioni per raccontare questa storia, sono sempre di più i turisti che si recano al villaggio.

“Siamo molto felici che il villaggio sia diventato vibrante”, ha detto Zhao, un abitante di Liqian, che ha guadagnato 2.000 yuan (circa 240 euro) l’anno scorso, grazie al boom del turismo.



Fonti
http://it.wikipedia.org/wiki/Relazioni_diplomatiche_sino-romane
http://it.wikipedia.org/wiki/Parti
http://www.yourself.it/cina-liqian-villaggio-discendenti-antichi-romani/
http://it.wikipedia.org/wiki/Campagne_partiche_di_Marco_Antonio
http://www.metaforum.it/showthread.php/21697-quot-Semo-romani-de-Gansu-quot
http://www.tuttocina.it/mondo_cinese/100/100_bert.htm

mercoledì 16 novembre 2011

Taoismo e Decrescita Felice: morte le ideologie, restano le utopie!

Crescita, crescita, crescita: chi non cresce è perduto! ma ci rendiamo conto di quanto è folle questo ragionamento? Gli esperti di economia – passi per quelli di destra, ma inspiegabilmente anche quelli di sinistra – sostengono che per risolvere i problemi generati dalla crisi economica bisogna riprendere a crescere, perché senza crescita non ci sono opportunità, senza opportunità non c’è lavoro, senza lavoro non ci sono consumi, senza consumi non ci sono opportunità, e così via in una spirale che si allarga senza fine. Ma la domanda è: dove andremo a «finire» di questo passo?

Un primo concetto: la crescita infinita, in un sistema limitato come è quello della Terra, è impossibile. Il PIL [Prodotto Interno Lordo] mondiale cresce circa il 4% annuo: con questo tasso di crescita in un secolo il PIL avrebbe un fattore di moltiplicazione di 13.780 volte! E tutto questo senza mettere in conto l’aumento della popolazione mondiale: ciò significa un aumento mostruoso del consumo di risorse ed un altrettanto mostruoso aumento dei rifiuti. Il problema non è tanto un tasso di crescita più o meno sostenibile, quanto l’insostenibilità di qualsiasi crescita sul lungo periodo, quale che sia il tasso. C’è un aneddoto interessante a riguardo: su un lontano pianeta viveva una specie di animali mostruosi che si nutrivano dei loro simili: uno di questi mostri, il più feroce ed aggressivo, aveva ucciso e divorato molti degli avversari, diventando sempre più grosso e potente. Un bel giorno però, il nostro eroe, dopo una lotta immane, uccise e si mangiò l’unico esemplare rimasto della sua specie … lascio a voi la triste conclusione di questa storia!

Un altro esempio significativo: in Cina circolano attualmente circa 140 milioni di autovetture (13 auto per 1000 abitanti) praticamente lo stesso numero di vetture degli Stati Uniti, che però contano solo 300 milioni di abitanti, con una densità di vetture di 450 per 1000 abitanti. Pensate cosa accadrebbe se la densità delle auto in Cina raggiungesse quella degli Stati Uniti: si avrebbero circa 6/700 milioni di veicoli in circolazione!!

Un altro aspetto del problema della crescita è il suo aumento in modo esponenziale: per spiegare questo aspetto drammatico della cosa ai non esperti di matematica, propongo un’altra storiella molto istruttiva: nel lontano oriente c’era un grande lago dove crescevano delle bellissime piante di ninfee: il clima era così propizio che ogni giorno il numero dei fiori galleggianti sull’acqua raddoppiava. Passavano i mesi e cresci, cresci, un bel giorno le ninfee avevano occupato metà della superficie del lago: quanto tempo mancava perché le ninfee occupassero tutta la superficie del lago? Solo un giorno!

Infine, secondo il concetto di «entropia», in un sistema chiuso, in cui non si scambia energia con l’esterno [e la Terra può essere considerata tale con buona approssimazione a parte l’apporto della energia irraggiata dal Sole] l’energia «ordinata», cioè quella utilizzabile (petrolio, carbone, gas, etc …), si trasforma parzialmente – ma inesorabilmente - in energia «disordinata», cioè in una forma non più utilizzabile. È vero che l’energia non si può né creare né distruggere, ma è altrettanto vero che non la si può completamente trasformare da una forma in un'altra senza che una parte venga dissipata sotto forma di calore e perda quindi la possibilità di essere ulteriormente trasformata. E visto che l’energia totale della Terra è limitata, non sarà possibile continuare a trasformarla senza che l’entropia, cioè il disordine aumenti.

Un esempio molto terra-terra ma molto significativo: nelle nostre abitazioni, l’attività quotidiana produce un aumento graduale di disordine [cioè dell’entropia]: la casa si sporca, i libri nella libreria non sono più al loro posto, la cantina si riempie progressivamente ma inesorabilmente di roba vecchia, gli armadi straripano di vestiti passati di moda … solo un deciso apporto di energia esterna al «sistema-casa» – la nostra fatica di riordino, e quindi immissione di energia «esterna» al sistema – riesce a ricreare «ordine» e quindi a ridurre l’entropia: chiaro,no?

Questa in rapida sintesi, la situazione drammatica della nostra epoca: ma proprio dalla Cina arriva un messaggio di speranza: 2500 anni fa il problema là era già noto – anche se in una forma decisamente più leggera- e i grandi pensatori cinesi lo avevano affrontato proponendo delle soluzioni di una modernità sconcertante.

I taoisti erano convinti che esistesse una realtà ultima, soggiacente alla molteplicità delle cose e degli eventi che osserviamo: essi chiamarono questa realtà Tao, che significa Via. Nel suo originario significato cosmico, il Tao è la realtà ultima, indefinibile, un processo dinamico in cui tutte le cose sono immerse: il concetto di entità suprema nel Taoismo non si identifica con un'entità senziente, un Dio giudice, padre, padrone, che osserva il mondo dall'alto e gestisce le sorti degli uomini. Al contrario l'entità suprema taoista è «energia pura», che pervade l'intero universo. Il «Dio» del Taoismo è il Tao, la natura stessa di cui l'uomo fa parte, il ciclo perpetuo che provoca il mutare e il divenire di tutte le cose. Conoscere la Via e conformarsi ad essa è l’ideale taoista: ma quali sono gli schemi della Via cosmica che l’uomo deve riconoscere? La principale caratteristica del Tao è la natura ciclica del suo movimento: l’idea è che nella natura tutti gli sviluppi, sia quelli del mondo fisico sia quelli delle situazioni umane, presentano configurazioni cicliche di andata e ritorno di espansione e contrazione.

Questa idea fu certamente desunta dalla secolare esperienza della vita contadina, l’alternarsi del giorno e della notte, l’alternarsi delle stagioni, l’alternarsi dei cicli produttivi, ma in seguito fu assunta come regola di vita. I cinesi credono che ogni volta che una situazione si sviluppa fino alle estreme conseguenze essa sia costretta a trasformarsi nel suo opposto; «gli esseri, giunti al culmine, non possono che fare ritorno». Secondo la legge ciclica del Tao, tutto ciò che è forte, duro, superiore, è stato all’inizio debole, molle, inferiore ed è destinato a ridiventarle.

Tutti al mondo riconoscono il bello come bello;
in questo modo si ammette il brutto.
Tutti riconoscono il bene come bene;
in questo modo si ammette il male.
Difatti l’essere e il non-essere si generano l’un l’altro,
il difficile e il facile si completano l’un l’altro,
L’alto e il basso si invertono l’un l’altro
Il prima e il dopo si susseguono l’un l’altro
(Lao Zi,2)


Secondo questa legge, non esiste crescita infinita, non esiste sviluppo illimitato, ogni cosa prima o poi ritorna da dove era venuta. In virtù di questa logica naturale, per cui ogni cosa che sale dovrà necessariamente ridiscendere, il fatto di rafforzare un nemico può al limite servire ad affrettane la caduta.

Ciò che si deve chiudere, bisogna prima aprirlo
Prima consolidare ciò che è da indebolire
Prima favorire ciò che è da distruggere
Prima dare ciò che è da prendere
Questa si chiama «visione sottile»
Il molle vince il duro, il debole vince il forte.
(Lao Zi,36)

Coloro che accumulano sempre più denaro per aumentare la loro ricchezza finiranno con l’essere poveri. La moderna società industriale che cerca continuamente di alzare il livello di vita e così facendo abbassa la qualità della vita per tutti i suoi membri è un esempio eloquente della verità di questa antica saggezza cinese.


Il ritorno è il movimento del Tao
La debolezza è l’efficacia del Tao
I diecimila esseri sotto il Cielo nascono dal «c’è»
E il «c’è» nasce dal «non-c’è»
(Lao Zi,40)

Il procedimento di comprensione del Tao è a ritroso, «controcorrente» rispetto ad ogni procedura consueta: ed ecco che appare il concetto della «decrescita»:

Praticare lo studio è sempre più accrescersi
Praticare il Tao è sempre più decrescere
Decrescere al di là del decrescere, fino ad attingere al non-agire
Non agendo, non v’è nulla che non si faccia.
(Lao Zi,48)


Un altro paradosso tipico del taoismo: il concetto del «non agire» . Ogni volta che la mia azione è volontaria, ogni volta che cerca di «imporre il mio io» andando controcorrente rispetto al corso naturale delle cose, essa rappresenta ciò che i taoisti chiamano wei ,l’agire che forza la natura. Quando invece l’azione va nel senso delle cose, quando si lascia portare dalla corrente, come il nuotatore che segue il Tao dell’acqua senza cercare di imporvi il suo io, essa dipende da ciò che è naturale ed è quello che i taoisti chiamano wu wei [letteralmente «non-agire», ma meglio «l’agire che aderisce alla natura»]. Tutto ciò che nell’uomo è volizione, costruzione, istituzione di distinzioni, non rappresenta che la parte periferica del suo essere: soltanto quando la lascia cadere, l’uomo ritrova il suo proprio centro. Ma cerchiamo di capire meglio cosa si intenda davvero per «non-agire».: il Lao Zi parte dalla constatazione assai semplice, che la forza finisce sempre per ritorcersi contro se stessa:

Non cercare di primeggiare con le armi,
perché primeggiare con le armi chiama risposta.
(Lao Zi,30)


Colui che agisce distruggerà,
Colui che prende perderà
Il Santo, non agendo su nulla, nulla distrugge,
Non impadronendosi di nulla, nulla ha da perdere
(Lao Zi,64)

Così dunque il non-agire cerca di spezzare il cerchio della violenza, assorbendo l’aggressione, astenendosi dall’aggredire di rimando. Per esemplificare il paradosso il Lao Zi fa ricorso alla metafora dell’acqua.

L’uomo del bene supremo è come l’acqua: l’acqua, benefica a tutti, di nulla è rivale.
Essa ha dimora nei bassifondi, da tutti disdegnati, ed alla Via è assai vicina.
Niente al mondo è più cedevole e più debole dell’acqua
Ma per intaccare ciò che è duro e forte, niente la supera
Niente potrebbe prenderne il posto
Che la debolezza vince la forza
E la mollezza vince la durezza
Non vi è nessuno sotto il Cielo a non saperlo
Benché nessuno lo sappia mettere in pratica.
(Lao Zi,78)

Quindi il «non-agire» non consiste nel «non far nulla» nel senso di incrociare passivamente le braccia, ma nell’astenersi da ogni azione aggressiva, diretta, intenzionale, interventista, al fine di lasciare agire l’efficacia assoluta, la potenza invisibile del Tao. Il Santo è colui che «aiuta i diecimila esseri a vivere secondo la loro natura, guardandosi dall’intervenire»

La Via del Cielo toglie il sovrappiù e aggiunge ciò che manca.
La Via degli uomini, al contrario, non è così:
essi tolgono dove c’è mancanza per offrirlo dove c’è un sovrappiù.
(Lao Zi, LXXVII)


La strategia taoista per contrastare l’aumento di entropia è molto semplice:

«Ciò che è calmo si mantiene facilmente.
Ciò che non è ancora apparso si previene facilmente.
Agisci prima che qualcosa sia; crea l’ordine prima che ci sia il disordine.
Veglia sulla fine come sull’inizio: allora nessun affare rovinerà.»
(Lao Zi, LXIV)

I danni enormi che stiamo apportando alle nostre foreste, alle nostre acque, alla flora, alla fauna e in generale agli ecosistemi sono sotto gli occhi di tutti. Ci viene propinata a ogni ora del giorno e della notte la favola dello «sviluppo sostenibile», vera e propria contraddizione in termini con la quale economisti e politici tentano di procrastinare l’inevitabile confronto con la realtà. E la realtà è che in natura l’eccessiva massimizzazione di una qualsiasi variabile, per quanto positiva, porta inevitabilmente a risultati catastrofici. Gli ecosistemi si sono conservati fino ad oggi sulla terra attraverso equilibri delicati. Trascurare questa verità palese sta portando l’umanità a sconvolgere in pochi decenni quanto è venuto formandosi in milioni di anni. E’ indubbio che, se non faremo al più presto qualcosa per invertire la rotta, ciò apporterà gravi danni alle generazioni future. Danni che difficilmente saranno completamente riparabili.

Il non-agire si configura come una modalità per ritornare al nostro stato di natura, quale era alla nostra nascita. Il ritorno alla prima infanzia evoca qui non l’innocenza ma l’Origine perduta. Secondo i taoisti, sul piano collettivo si tratta di tornare ad uno stato originario, anteriore alla formazione della società organizzata, esente da ogni forma di aggressione o di costrizione della società sugli individui; un mondo in cui l’assenza di morale, di leggi, di punizioni non induce gli individui ad essere a loro volta aggressivi, e in cui non vi è dunque guerra o conflitto, né spirito di competizione o volontà di dominio. Ecco la visione idilliaca di Lao Zi:

E’ un piccolo paese con pochi abitanti
Anche se avessero utensili per dieci o cento uomini
essi non se ne servirebbero
Temono la morte e non se ne vanno a migrare lontano
Anche se avessero barche o carri non ne farebbero uso
Anche se avessero armi non ne farebbero sfoggio
Essi trovano gustoso il loro cibo
E ritengono adeguate le loro vesti
Comode le loro dimore
Piacevoli le loro usanze
Da questo paese a quello vicino
Si odono cantare il galli e i cani abbaiare
Ma coloro che vi abitano giungeranno alla morte in vecchiaia
Senza essersi mai frequentati
(Lao Zi, 80)

Il mondo descritto dal Lao Zi è sicuramente utopistico, ma i taoisti non negano il rapporto dell’uomo con il mondo. L’Uomo Vero è colui che semplicemente riesce ad intrattenere tale rapporto senza lasciarsi «reificare dalle cose»:

In mezzo ad un mondo che si perde, io solo cerco il vero cammino,
ma come riuscirò a trovarlo? So che è impossibile.
Ma so anche che se volessi costringerlo, questo mondo,
commetterei un errore in più.
Meglio lasciarlo qual è, senza cercare di stimolarlo,
e viverci in mezzo senza crucciarmi.
(Zhuang Zi, XII)

Per tornare a noi, confrontiamo le parole di Lao Zi con quelle di Maurizio Pallante (Movimento per la Decrescita Felice):

«La decrescita è elogio dell’ozio, della lentezza e della durata; rispetto del passato; consapevolezza che non c’è progresso senza conservazione; indifferenza alle mode e all’effimero; attingere al sapere della tradizione; non identificare il nuovo col meglio, il vecchio col sorpassato, il progresso con una sequenza di cesure, la conservazione con la chiusura mentale; non chiamare consumatori gli acquirenti, perché lo scopo dell’acquistare non è il consumo ma l’uso; distinguere la qualità dalla quantità; desiderare la gioia e non il divertimento; valorizzare la dimensione spirituale e affettiva; collaborare invece di competere; sostituire il fare finalizzato a fare sempre di più con un fare bene finalizzato alla contemplazione. La decrescita è la possibilità di realizzare un nuovo Rinascimento, che liberi le persone dal ruolo di strumenti della crescita economica e ri-collochi l’economia nel suo ruolo di gestione della casa comune a tutte le specie viventi in modo che tutti i suoi inquilini possano viverci al meglio.»

«La Via del Cielo è di non lottare, e nondimeno, saper vincere;
di non parlare, e nondimeno, saper rispondere;
di non chiamare, e nondimeno fa accorrere;
di essere lenti, e nondimeno saper fare progetti»
(Lao Zi, LXXIII)

Rinunciare agli sprechi, rinunciare alla crescita, non significa rinunciare all’uomo. Non significa rinunciare alla felicità e al benessere. Negli ultimi duecento anni, prima in occidente e poi in oriente, l’uomo si è progressivamente abituato ad associare alti livelli di consumo al benessere. Questa convinzione resta ben radicata nonostante le prove del contrario siano numerosissime e sotto gli occhi di tutti. Sappiamo ad esempio che l’aumentato consumo di cibi ha portato nelle società del nord del mondo ad un drastico aumento della percentuale di obesi, e non è difficile immaginare un’associazione tra lo stress da consumo e da scelta indotti dall’industria pubblicitaria e l’aumento esponenziale del consumo di psicofarmaci degli ultimi decenni. Gli esempi che si potrebbero fare sono pressoché infiniti.

Attualmente, esistono innumerevoli tecnologie e soluzioni interessanti che potranno e dovranno essere impiegate per limitare l'impatto delle nostre attività sull'ecosistema, ma il punto cruciale affinché tali tecniche abbiano un'efficacia effettiva e permettano un reale miglioramento delle condizioni di vita a livello mondiale, andando ad alleviare le iniquità esistenti, è un cambiamento del sistema economico non più fondato solamente sul mercato, sul profitto e sulla competizione, ma dove altri valori avranno la precedenza.

Molti ricercatori, già da anni, parlano di «economia della felicità»: un'economia che abbia come scopo ultimo quello di perseguire la felicità delle persone, non intesa meramente come appagamento dei bisogni primari materiali ma includendo anche quelli relazionali e spirituali, i quali sono ancora sconosciuti alla maggioranza della «massa consumatrice».

Una condizione necessaria per la creazione di un sistema economico non degenerativo, bensì a sostegno della vita e della felicità umana, è la localizzazione della produzione, sia materiale che energetica, tramite la valorizzazione delle risorse territoriali (prime fra tutte le fonti rinnovabili caratteristiche del luogo) e degli scambi interregionali. La nascita di solidarietà di vicinato, di rapporti umani basati sullo scambio, sul calore umano, sull'amicizia, il rafforzamento delle conoscenze contadine e la trasmissione del «saper fare» e dell'autoproduzione, sono tutti aspetti che fanno parte di questo nuovo cambiamento economico-sociale.

Tutto ciò sarà unito a una parola d'ordine impellente: «diminuire». La diminuzione del consumo prima di tutto, la diminuzione se non l'annullamento totale degli sprechi e dei rifiuti, la diminuzione dei ritmi di vita, quindi la riduzione dello stress e del caos, la diminuzione delle ore di lavoro, la diminuzione del consumo di carne, la diminuzione dei viaggi intercontinentali.

La decrescita felice rappresenta questa grossa occasione. «Decrescere» significa inizialmente cominciare con il diminuire là dove la diminuzione non porterà altro che un vantaggio, sia in termini economici che ambientali e di salute. Sono amplissimi i margini di riduzione di risorse impiegate senza impattare sui bisogni da soddisfare ma agendo solamente sulle perdite e sull'inutilizzato. E la decrescita è chiamata «felice» perché non sarà imposta da nessuno, ma sarà una scelta di ogni singola persona, perché la decrescita realizzata basandosi sui principi di equità comporterà benefici per tutti, che saranno di gran lunga maggiori rispetto a ciò che perderemo.

Non c’è errore più grande che approvare i desideri.
Non c’è disgrazia più grande che non sapere avere a sufficienza.
Non c’è torto più grande che il desiderio di ottenere.
Poiché sapere che abbastanza è abbastanza significa avere sempre a sufficienza.»
(Lao Zi, XLVI)

E se al posto della ricchezza prodotta misurassimo la felicità? Non come sentimento effimero, ma come percezione di un equilibrio globale tra il benessere economico, la cultura, le relazioni con gli altri, il rispetto della natura. Il dibattito su come affiancare al PIL, indicatori più completi che diano una misurazione a tutto tondo del benessere delle persone è stato avviato da molto tempo,fino ad ora senza grandi risultati. Ma c’è un piccolo Paese dell'Himalaya, il Buthan, che ormai da lungo tempo ha sostituito il PIL con un indicatore estremamente più complesso, il FIL (Felicità Interna Lorda). Infatti i noti limiti del PIL, consistono nel fatto che si misura la ricchezza, ma sfuggono altre variabili fondamentali, tra le quali lo stato di salute dell'ambiente, lo stato di benessere globale della popolazione, variabile che include anche le relazioni tra persone. Ma per il Buthan si tratta di un problema superato da tempo. Il primo ministro ha detto:

«Abbiamo cominciato a riflettere sulla validità del Pil come misuratore del benessere già negli anni '60. Lo stesso creatore di questo indicatore, il premio Nobel Simon Kuznets, che lo mise a punto all'indomani della crisi del '29, nel 1934, disse che non sarebbe stato adatto a misurare il benessere complessivo della popolazione, e invece fu utilizzato in questo senso, contro le indicazioni del suo stesso creatore. Il nostro re invece si chiese come si poteva misurare in modo completo il benessere della società, e il suo grado di progresso. Il Pil promuove la crescita economica illimitata, un modello insostenibile dal momento che il nostro pianeta non ha delle risorse illimitate».

E così, anno dopo anno, il Buthan ha messo insieme un indicatore completamente diverso, che ha al centro la felicità, un concetto che certo include anche il benessere economico, ma va ben oltre. «Il FIL si basa su quattro pilastri: l'esistenza di uno sviluppo economico equo e sostenibile, che include l'istruzione, i servizi sociali e le infrastrutture, in modo che ogni cittadino possa godere degli stessi benefici di partenza; la conservazione ambientale, che per noi è particolarmente importante visto che viviamo in un Paese che solo per l'8% ha un suolo utilizzabile per l'agricoltura; la cultura, intesa come una serie di valori che servono a promuovere il progresso della società; e infine il pilastro su cui si fondano tutti gli altri, il buon governo».

Pratica il non-agire, bada a non fare niente, assapora il senza-sapore;
considera il piccolo come grande il poco come molto!
intacca il difficile dove è facile;
fai grande ciò che è minuto.
Le cose più difficili al mondo prendono avvio da ciò che è facile;
Le cose più grandi al mondo prendono avvio da ciò che è minuto.
Perciò il Santo non fa mai niente di grande e così può compiere il grande.»
(Lao Zi, LXIII)
E in attesa che i nostri governanti pensino ad introdurre il FIL anche da noi, proviamo a fare degli esercizi mentali, ad allenarci ogni giorno a pensare diversamente. Creiamo nella nostra mente soluzioni ideali, fantasie. Immaginiamo per esempio una città senza automobili dove le persone si muovono liberamente, pensiamo a una società che non fa più uso della violenza, che non produce più alcun rifiuto, pensiamo di poter vivere dignitosamente senza dover subire ingiustizie, pensiamo a un'economia che non si regga sul denaro, a un mondo senza armi e senza guerre, senza povertà, sogniamo, immaginiamo, dipingiamo il futuro.

«Quando si pratica (la Via) nella propria persona, la sua virtù sarà l’autenticità.
Quando la si pratica nella propria famiglia, la sua virtù sarà l’abbondanza.
Quando la si pratica nel proprio villaggio, la sua virtù sarà la durevolezza.
Quando la si pratica nello Stato, la sua virtù sarà la prosperità.
Quando la si pratica nell’Impero, la sua virtù sarà l’universalità.»
(Lao Zi, LIX)

Partire da un sogno, crearlo e sognarlo è il primo passo perché il sogno si avveri. Concludo con gli ultimi versi di Imagine di John Lennon:

Imagine no possessions
I wonder if you can
No need for greed or hunger
A brotherhood of man
Imagine all the people
Sharing all the world...
You may say I'm a dreamer
But I'm not the only one
I hope someday you'll join us
And the world will live as one

Immagina un mondo senza possessi
mi chiedo se ci riesci
a necessità di avidità o fame
La fratellanza tra gli uomini
Immagina tutta le gente
condividere il mondo intero...
Puoi dire che sono un sognatore
ma non sono il solo
Spero che ti unirai anche tu un giorno
e che il mondo diventi uno