Dao De Jing

Senza uscire dalla porta di casa puoi conoscere il mondo,
senza guardare dalla finestra puoi scorgere il Dao del cielo.
Più si va lontano, meno si conosce.
Per questo il saggio senza viaggiare conosce,
senza vedere nomina, senza agire compie.
Dao De Jing, Lao Zi

venerdì 29 aprile 2011

Matteo Ricci : come fare diventare cinese anche Dio

Una delle questioni centrali affrontate da Matteo Ricci nella sua opera di evangelizzazione è stata la traduzione del termine “Dio”. In Cina non esisteva un termine che identificasse un Dio monoteisticamente inteso: grazie ai suoi lunghi ed approfonditi studi di tutti i testi canonici cinesi analizzò tutti i termini, all’interno della tradizione cinese, che potessero servire alle sue necessità. Ma la soluzione di tale arduo problema arrivò, come sempre, dall’inconscio …

La sfida di Ricci era quella di rendere mutuamente intellegibili due mondi fino a quel momento quasi totalmente “impermeabili” l’uno all’altro, come l’occidente cristiano e il variegato mondo cinese. Gli insuccessi dei predenti tentativi di evangelizzazione fatti dai francescani e dai domenicani rendevano evidente la necessità di pensare ad un modo differente di interloquire con tali culture. Per questo si rendeva indispensabile non solo padroneggiare la lingua del posto, ma anche la cultura, la tradizione, per poter trovare dei punti di contatto con il pensiero cristiano: Ricci sviluppò il metodo della “inculturazione”, ossia dell’assimilazione dello straniero alla cultura del paese, per potere – dall’interno – acquisire il credito necessario per trasmettere il proprio insegnamento.

La difficoltà non era tanto quella di trovare un «significante» adeguato (e questo era già un problema) ma soprattutto di ricercare un contesto in cui il «nominare» Dio potesse essere realmente portatore di senso. Matteo Ricci si trovò per primo a tradurre termini e concetti che non appartenevano alla cultura di cui era ospite.

Idealmente un traduttore sceglie quelle strategie traduttive nella lingua d'arrivo che un madrelingua utilizzerebbe nella stessa situazione comunicativa. Tuttavia non sempre una parola nella lingua di partenza trova una sua corrispondente nella lingua di arrivo (e questo vale in particolare per il cinese), e può anche succedere che nella lingua di arrivo manchino delle parole presenti in quella di partenza. Non parliamo poi delle differenze nella struttura sintattica delle lingue e nei modi espressivi (stile, espressioni idiomatiche, proverbi, detti, etc.)

Uno dei problemi più complessi che Matteo Ricci si trovò ad affrontare nel tentativo di identificare Dio per i cinesi è stato il problema del Essere: in cinese il verbo “essere” 是 shi ha un uso assai limitato. Non viene usato come copula nelle frasi nominali («la Cina è grande» si dice «Cina grande»); spesso viene tradotto con 有 you “avere” («in casa ci sono due persone» si dice «in casa avere due persone) quando è usato, shi ha il significato di “esserci”, cioè essere presente in un certo luogo.

Così in cinese, separare ciò che «è» da ciò che «non è» è una questione non banale: Dal punto di vista filosofico, la cosa diventa ancora più complessa. La definizione di Dio come «Essere» comporta la equiparazione più o meno esplicita del Male, in quanto allontanamento dal Bene, come «Non-essere».

Ma vediamo quali erano le teorie cinesi sulla origine dell’Universo con cui il buon Matteo dovette confrontarsi : nel periodo dei Regni Combattenti il poeta Qū Yuán ( 屈原 ) si domandava:

«Ditemi: chi ci può parlare delle lontane origini?
Allora Terra e Cielo non erano ancora formati, come ne possiamo parlare?
Quell’età caotica, chi la può chiarire?
Tante cose vaghe, come le possiamo distinguere?
Dalle tenebre infinite scaturì la luce, chi può raccontarcelo?
L’unione dello Ying e dello Yang è la fonte della vita, ma dove è il suo inizio?
Il Cielo consta di nove sfere, chi le creò?
Un’opera così grande, chi è stato il primo a farla?»

Naturalmente il poeta non dà alcuna risposta: resta il fatto che da questi versi emergono due concetti chiave: a) il mondo è nato dal Caos, b) lo yīn e lo yáng sono l’origine della vita.

Il concetto del mondo originato dal Caos è molto antico: ma in che modo il cielo e la terra nacquero dal Caos?

«Nell’antichità, quando non esistevano né il Cielo né la Terra, non esistevano forme concrete, il cosmo era solo una massa di vapore primordiale oscuro, immenso, caotico; non si potevano distinguere i suoi confini. In mezzo al caos il Dao cominciò a formarsi. Solo quando ci fu il Dao l’universo poté nascere: sorsero gli spiriti dello Yin e dello Yang che intrapresero l’opera di creazione del mondo; il tempo non ha fine, lo spazio non ha confini. Finalmente divisero il vapore primordiale nei due vapori dello Yin e dello Yang, ed entrambi divisero tutto l’universo; lo Yang era la forza e lo Yin la dolcezza, entrambi si completavano; fu solo con questo che vennero create le miriadi di cose. Il vapore torbido formò tutte le cose e le specie animali, mentre il vapore luminoso creò l’uomo»
(dal “Libro del Principe Huai Nan)

Dall’oscuro mistero del caos emerse qualcosa di altrettanto misterioso: il Dao . Dao è l’inesprimibile, l’inspiegabile, l’unità indifferenziata ma feconda, dal cui ventre nasce la vita.

“...il senza forma è il grande progenitore di tutte le cose
… tutto nasce da ciò che non ha forma...”
(Huai Nan Zi)






“... Il Dao di cui si parla non è il vero Dao,
il Nome che si pronuncia non è il vero Nome
Il Cielo e la Terra sono stati generati dal Non-Essere (无名 Wu Ming, Senza-Nome)
L’Essere (有名You Ming, ciò che Ha-Nome) è il generatore di tutte le creature.
Continuamente il Non-Essere brama di mostrare i suoi prodigi.
Continuamente l’Essere brama mostrare i suoi confini.
Entrambi hanno una comune origine, ma sono designati con nomi diversi:
ciò che hanno in comune è misterioso, il Mistero dei Misteri, la Porta dei Prodigi...”.
(Dao De Jing)



“… tutti nel mondo riconoscono il bello come bello
In questo modo si ammette il brutto
Tutti riconoscono il bene come bene
In questo modo si ammette il male
Difatti, l’essere e il non essere si generano l’un l‘altro …”
(Dao De Jing)


Secondo la tipica circolarità del pensiero orientale, tutto ciò che “esiste” (l’universo) ha origine da ciò che “non-esiste”: il “manifesto” presuppone e trova origine nel “non-manifesto” . La forma è generata dal senza forma, così come la forma porterà al senza forma. Questa “esistenza prima dell’esistenza”, questa potenzialità non ancora espressa, è indicata col termine Dao. La realtà quindi, in tutta la sua molteplicità, deriva organicamente dall’Uno in un rapporto di generazione e non per un atto di creazione dal nulla. Ma il paradosso più radicale consiste nell’affermare che il nulla ha più valore di qualcosa, il vuoto ha più valore del pieno:

Trenta raggi convergono nel mozzo
Ma è proprio dove non c’è nulla che sta l’utilità della ruota
Si plasma l’argilla per farne un recipiente
Ma è proprio dove non c’è nulla che sta l’utilità del recipiente
Si aprono porte e finestre per fare una stanza
Ma è dove non c’è nulla che sta l’utilità della stanza
Così il «c’è» presenta delle opportunità, che il «non c’è» trasforma in utilità
(Lao Zi,11)

Questo significa che il Vuoto è alla base dell’Essere, lo precede logicamente e temporalmente. Lao Zi porta all’estremo questo concetto mostrando come il vuoto non solo è l’origine di ciò che è ma ne rappresenta il senso più autentico.

Ancora, nello Yi Jing, il Classico dei Mutamenti, si dice che uno stato di vacuità (Wu Ji) precede qualsiasi creazione. Wu Ji è un concetto al limite della razionalità, rappresenta la forma priva di forma che precede la forma. Ma è proprio dal Wu Ji che nasce il Tai Ji, principio da cui si origina il movimento, che produce la differenziazione delle forze primitive Yin e Yang e tutta la successiva generazione dei Diecimila Esseri.


无 极 生 态 极
wú jí shēng tài jí Il Vuoto (il Non-Polo) genera L’ Energia (il Polo Supremo)

太 极 生 阳 和 阴
tài jí shēng yáng he yīn L’Energia (il Polo Supremo) genera Yang e Yin



Yīn e Yáng sono il principio di ogni creazione: il Cielo venne creato da un accumulo di Yáng, mentre la Terra venne creata da un accumulo di Yīn.

“… allora la luce e le sostanze più pure si innalzarono e formarono il Cielo …”
“… mentre le sostanze più pesanti e rozze precipitarono e produssero la Terra …”


Dall’incontro di Yang e Yin nascono i Diecimila Esseri 万物 (Wàn Wù)


Il Dào genera l’Uno
L’Uno genera il Due
Il Due genera il Tre
Il Tre i diecimila esseri
(Laozi,42)



Un analogo problema di identificare i termini giusti per fare comprendere un messaggio si era presentato al tempo della introduzione del buddhismo in Cina, a partire dal I° secolo d.C., durante la dinastia Han: la novità delle concezioni buddhiste si era scontrata subito con la difficoltà di tradurre in cinese i termini sanscriti dei sutra. Fu necessario un lungo e paziente lavoro di traduzione per rendere comprensibili ai cinesi i testi buddhisti: il fatto che tali testi venissero tradotti nella lingua cinese classica non agevolò certo la diffusione negli ambienti popolari. In questa opera di traduzione, le categorie cinesi più affini al quelle buddhiste, furono quelle espresse dal pensiero taoista: fu infatti proprio il taoismo a fare da collegamento tra il buddhismo indiano e la cultura cinese, favorendo la formazione di un buddhismo “sinico”.

La letteratura buddhista fu spiegata facendo ricorso ai “tre misteri”, cioè al Dao De Jing di lao Zi, all’opera di Zhuang Zi e allo Yi Jing. Il metodo usato per tradurre i Sutra fu quello analogico, nel senso che si cercò di reperire nei testi basilari del taoismo l’equivalente dei concetti buddhisti da trasmettere. A titolo di esempio, il «risveglio» (bodhi) è inteso in termini di Dao, l’«estinzione» (nirvāna) in termini di non-agire (wu wei), l’«arhat» buddhista è assimilato all’ uomo vero (zhen ren), e così via.

Ma in che cosa consisteva la presunta affinità tra taoismo e buddhismo? I punti principali di contatto erano l’etica e la concezione della vita. In primo luogo, l’interesse per il buddhismo si concentra sul karma e sul ciclo delle rinascite: questi concetti, sono inizialmente compresi nel contesto della mentalità taoista, in termini di “trasmissione del fardello”: l’individuo è passibile di sanzioni per gli errori commessi dai suoi avi, in quanto, secondo le credenze cinesi, il bene o il male compiti dagli antenati potevano influire sulla sorte dei discendenti. La novità tuttavia è che la concezione buddhista del karma introduce la responsabilità “individuale”, mentre secondo i cinesi le ricadute delle azioni degli antenati coinvolgevano tutta la famiglia.

La repressione dei desideri era un elemento comune: i taoisti raccomandavano la condizione in cui si desidera di non avere più desideri, i buddhisti concepivano l’attaccamento alla vita come il desiderio nefasto principale, da cui derivavano tutti gli altri. Inoltre, entrambi concepivano l’agire come cosa negativa: i buddhisti vedevano nel karma l’elemento determinante della sofferenza, cioè la causa di nuove reincarnazioni; i taoisti esaltavano una attività priva di attività (wu wei), ossia un tipo di azione consistente nel minimo sforzo, che non interferisse con il corso naturale delle cose. Anche le concezioni della vita erano affini: entrambe le correnti esaltavano la spontaneità della vita e rifuggivano dalla speculazione. I buddhisti reagivano al dogmatismo brahmanico, i taoisti agli ideali culturali promosso dai confuciani. I buddhisti sostenevano che la realtà era priva di significato, e perciò “vuota”: i taoisti esaltavano una realtà suprema definita come “non essere”. Il fatto che i principali concetti buddhisti venissero recepiti tramite la mediazione del taoismo, trasformò la religione indiana in qualcosa di differente (vedi gli sviluppi del buddismo Chan e poi lo Zen).

La crescita delle scuole buddhiste e taoiste nei secoli successivi provocò una forte reazione del confucianesimo, che si poneva come baluardo della tradizione: tuttavia il confronto porterà alla formazione di un pensiero sincretico, conducendo all’idea di una sostanziale unicità delle tre religioni. Questo non poteva essere accettato da Matteo Ricci, che scegliendo di privilegiare il mondo confuciano come interlocutore, non si muoveva solamente con spirito “tattico” (in quanto il mondo confuciano era quello più strettamente legato al sistema di potere imperiale) ma aveva motivi di carattere teologico. Nonostante la sua genialità, Ricci è comunque un uomo del suo tempo ed un missionario giunto in Cina non solo per comprendere ma soprattutto per evangelizzare. Secondo la sua prospettiva, concedere spazio al Non-essere significava abdicare all’Essere (Dio) inteso alla maniera occidentale. Per queste ragioni essenzialmente, Ricci denuncia l’assurdità di un pensiero che si discosti dall’Essere e trova invece nel confucianesimo le basi per il suo dialogo.

Studiando i classici confuciani, Ricci venne a conoscenza delle antiche dinastie cinesi 夏Xia 商 Shang周 Zhou, della struttura gerarchica della società, della importanza dei legami di parentela, del culto dei morti: in particolare in epoca Shang, il sovrano poteva essere riconosciuto tale solo in quanto capo del clan dominante, dal quale traeva forza ed autorità, anche in funzione dei gloriosi antenati della famiglia: era l’unico che poteva fare sacrifici agli antenati, per richiedere benevolenza sia per sé che per il popolo. Il sovrano aveva quindi anche una indissolubile funzione religiosa, in quanto l’unica persona abilitata ad avere contatti, tramite i riti, con il mondo spirituale degli antenati: ecco che la divinità dell’epoca, Shang Di (上帝), Il Sovrano dall’ Alto, non è altro, probabilmente, che il più importante ed inaccessibile di tutti gli antenati, ma pur sempre uno di essi, il capostipite a cui il sovrano mortale si poteva rivolgere attraverso la mediazione dei propri avi più prossimi.

Nell’ultimo periodo della dinastia Shang il culto degli antenati inizia a perdere sostanzialità, trasformandosi essenzialmente in un sistema rituale: questa situazione viene ereditata dalla dinastia successiva, quella dei Zhou, che continuarono a venerare Shang Di come essere supremo. Tuttavia, pur essendo già avanzato il processo di spersonalizzazione, Shang Di era pur sempre il primo antenato di un’altra dinastia: fu così che i Zhou identificarono un divinità ancora più in alto di Shang Di, ovvero il Tian ( 天) , il Cielo.

Il Tian, consentiva di adorare una divinità suprema, separata dal contesto dei legami parentali: il problema di garantire il diritto al governo fu risolto con il concetto del 天命Tian Ming, il Mandato Celeste, cioè l’assegnazione, da parte del Cielo, del mandato a governare ad una certa dinastia. Diversamente dal concetto occidentale del mandato divino a governare per i regnanti della vecchia Europa, il Tian Ming poteva essere revocato, in caso di grave mancanza dei regnanti: il Cielo avrebbe in tal caso manifestato il suo dissenso verso il sovrano tramite “segni” quali carestie, inondazioni, calamità naturali.

La concezione Zhou del Tian Ming ebbe una notevole fortuna lungo l’intero arco della storia cinese, tanto che perfino Mao Ze Dong lo utilizzerà per affermare la legittimità della propria rivoluzione!

Di qui la scelta di Matteo Ricci : «Colui che è chiamato Signore del Cielo , nel mio modesto paese, è colui che è detto Shang Di in Cina.»

Sembra però che, alla fine di tutto questo “grande studio” Il problema della definizione del Dio cristiano in Cina fu risolto - stando alle Fonti ricciane - allorché un giovane catecumeno, «salutò il quadro di Cristo con l’appellativo Tian Zhu (Signore del Cielo)» nonostante tale termine fosse anche utilizzato per indicare una divinità negli scritti canonici buddhisti. Ed ecco il titolo del primo catechismo cattolico scritto in lingua cinese da Matteo Ricci:

天主實義Tian Zhu Shi Yi “Il vero significato del Signore del Cielo”

L’apparente paradosso è che, pur criticando aspramente sia il buddhismo che il taoismo, Ricci pesca da queste tradizioni molte parole che poi userà ne contesto cristiano:

oltre al già citato Tian Zhu (il Signore del Cielo), userà:

天堂Tian Tang (Palazzo Celeste) per indicare il Paradiso, termine usato per tradurre il sanscrito devaloka (dimora degli dei).

地獄 Di Yu (Prigione Terrestre) per indicare l’Inferno, termine usato per tradurre il sanscrito naraka (luogo di espiazione ultraterreno)

天神Tian Shen (Spiriti Celesti) per indicare gli Angeli, termine usato per tradurre il sanscrito deva (spirito, divinità)

魔鬼 Mo Gui (Spiriti Demoniaci) per indicare i Diavoli, termine usato per tradurre il sanscrito mara (il Tentatore)




sabato 23 aprile 2011

Marco lo ha raccontato ne Il Milione, ma il “grande viaggio” è stato pensato da suo padre Nicolò Polo


Nicolò Polo
Le memorie di Marco Polo, raccolte nel famoso Il Milione, parlavano di civiltà sconosciute dai tesori favolosi, ricche di prodotti ricercatissimi dai mercanti occidentali. Il libro ebbe un’enorme influenza sulla fantasia popolare: fu copiato a mano per due secoli e dal 1477 ha continuato ad essere stampato in molte lingue. Probabilmente Marco Polo è l’europeo più famoso che abbia mai percorso la Via della Seta fino in Cina. Il Milione fu sia ammirato che dileggiato per secoli, ma oggi gli studiosi, dopo aver soppesato tutte le sue imprecisioni, lo definiscono “ la migliore descrizione esistente” del regno di Qublai nel suo massimo splendore.

Ma perché Marco fece quel viaggio? E si può credere a tutto quello che sostenne di aver visto e fatto? In realtà Marco è stato il testimone di una grande impresa ideata però da suo padre Nicolò…

Siamo nel XIII° secolo: molti mercanti veneziani si stabiliscono a Costantinopoli, l’odierna Istanbul, e accumulano ingenti ricchezze. Fra loro ci sono Niccolò e Matteo Polo, padre e zio di Marco: i due hanno un'attività di commercio in pietre preziose e gemme.


Buchara
Nel 1255 essi decidono di vendere le loro proprietà, investono il ricavato in gioielli e lasciata Costantinopoli, i due si dirigono in Soldania (l'odierna Sudak, in Crimea): da lì i Polo si spostano nella città di Bolgara, (l'attuale Bolgary a sud di Kazan', sulla riva del Volga) la capitale del Khanato occidentale dell’impero mongolo. Là gli affari vanno molto bene ed essi raddoppiarono il capitale. Erano tempi molto agitati e una guerra in corso impedisce loro di tornare a casa: decidono allora di dirigersi verso Oriente, e raggiungono la città di Buchara, un importante centro di scambi commerciali dell’attuale Uzbekistan.

La guerra continua e i Polo sono bloccati a Buchara da tre anni: un bel giorno passano di lì dei messi che si recavano da Qublai, Gran Khan di tutti i mongoli, i cui domini si estendevano nell’area che oggi andrebbe dalla Corea alla Polonia. I messi invitano Niccolò e Matteo ad unirsi a loro, dato che, stando al racconto di Marco Polo, il Gran Khan non aveva mai visto dei “latini” (intendendo probabilmente abitanti dell’Europa meridionale) e sarebbe stato felice di parlare con loro. Dopo un anno di viaggio i Polo arrivano alla corte di Qublai Khan, nipote di Gengis Khan, fondatore dell’impero mongolo. Il Gran Khan accoglie i due fratelli Polo con tutti gli onori e fa loro molte domande sull’Europa. Dà loro una piastra d’oro che doveva servire da salvacondotto per il viaggio di ritorno e affida loro una lettera per il Papa in cui lo pregava di mandargli “ cento uomini savi, esperti nella religione cristiana, sapienti nelle sette arti “ per convertire la popolazione.

Ripartono nel 1266 arrivando a Roma nel 1269 come ambasciatori di Kublai Khan, con una lettera da consegnare al papa con la richiesta di mandare chierici istruiti evangelizzare popolazioni mongole pagane. Marco, che era nato a Venezia, ha 15 anni quando vede per la prima volta suo padre. Al rientro in paesi “cristiani”, Niccolò e Matteo apprendono che Papa Clemente IV° era morto.

Essi attendono un successore, ma quell’interregno, il più lungo della storia, dura tre anni. Dopo due anni, nel 1271, ripartono alla volta del Gran Khan, portando con sé Marco che aveva 17 anni.


i Polo da gregorio X°
Ad Acri, in Palestina, un alto prelato e uomo politico, Tebaldo Visconti, dà ai Polo lettere per il Gran Khan che spiegavano perché non era possibile soddisfare la sua richiesta di cento savi. Giunti in Asia Minore, i Polo apprendono che lo stesso Visconti era stato eletto Papa, perciò decidono di tornare da lui ad Acri. Invece di cento savi, il nuovo Papa, Gregorio X°, manda solo due frati autorizzati a ordinare sacerdoti e vescovi, e fornisce loro le dovute credenziali e doni per il Khan. Il gruppo si rimette in viaggio ma, spaventati dalle guerre che devastavano quelle regioni, ben presto i frati tornano indietro, mentre i Polo proseguono.

Viaggiano verso l'interno, attraversando l'Anatolia e l'Armenia. Scendono quindi al Tigri, toccando probabilmente Mossul e Baghdad. Giungono fino al porto di Ormuz, forse con l'intenzione di proseguire il viaggio via mare.

Tuttavia, constatando che le imbarcazioni erano malfatte e tenute insieme con delle funi e quindi non in grado di tenere il mare, prendono la via di terra e attraverso la Persia e il Khorasan, (regione dell’Iran orientale) raggiungono Bactria (oggi Balkh in Afghanistan) e il Badakhshan (provincia dell’ Afghanistan) . Dirigendosi a nord e a est, superano in quaranta giorni le immense zone desertiche, le imponenti catene montuose, gli altipiani verdeggianti del Pamir prima di arrivare nella città di Kashgar, in quella che oggi è la regione autonoma cinese del Xinjiang Uighur. Quindi seguendo antiche carovaniere a sud del bacino del Tarim e del deserto del Gobi, giungono a Chemenfu (oggi Shangdu, nell’attuale distretto di Zhenglan nella Mongolia Interna), la residenza estiva del Khan, dopo un viaggio durato tre anni e mezzo.

Egli ricorda: “si truova una cittade ch’è chiamata Giandu, la quale fece fare lo Gran Cane ch’oggi regna, Coblay Cane. E hae fatto fare in questa città un palagio di marmo e d’altre ricche pietre; le sale e le camere sono tutte dorate; ed èe molto bellissimo maravigliosamente”.


Qublai Khan
Dopo la consegna da parte di Niccolò e Matteo di alcune lettere del papa Gregorio X, il padre di Marco dichiara che il giovane è suo figlio e servitore del Gran Signore. Da questo momento inizia un periodo straordinario nella vita di Marco. Il Gran Khan lo elegge ambasciatore consentendogli di viaggiare in lungo e in largo per gli sterminati territori dell'Impero, sempre ben protetto e attrezzato. Grazie a questa sua nuova veste Marco ha l'occasione di visitare luoghi che ad altri Occidentali erano praticamente inaccessibili, di cui ci ha lasciato descrizioni straordinarie. Marco dimostra di essere valente e intelligente: si appropria con facilità “dei costumi tartari, della lingua e della scrittura di quelle regioni”.Durante questi anni Marco viaggiò attraverso lo Shaanxi, il Sichuan, fino a raggiungere lo Yunnan, nell'alta valle dello Yangzi. Fu sulla costa orientale della Cina, da Pechino al Fujian sino al porto di Zaiton (oggi Quanzhou).

Non bisogna però trascurare l'importanza che ebbe per le nostre conoscenze il viaggio di ritorno. Quasi sicuramente, quando finalmente i Polo ebbero il permesso di partire dalla corte del Khan, nel 1291, vi fu un'ambasceria inviata da Arghun, re di Persia, in base alla quale egli chiedeva a Khublai in sposa una principessa. Khublai accettò e affidò ai tre Polo la giovane Cocacin (Kököqin), destinata ad Arghun. I Polo partirono da Zaiton, sostarono in Vietnam, salparono nel 1292 da Formosa e viaggiarono per il Mare Cinese fino a Sumatra, dove rimasero per cinque mesi. Giunsero a Hormuz l'anno seguente. Per capire le difficoltà cui andarono incontro si pensi che di oltre 600 persone facenti parte l'equipaggio originario ne sopravvissero solo 18. I tre veneziani conclusero la missione lasciando la principessa a Ghazan, successore di Arghun che nel frattempo era morto.


La principessa Cocacin
Dopo in avventuroso viaggio di ritorno, i Polo giunsero a Venezia nel 1295 dopo quattro anni di viaggio e 17 passati in territori lontanissimi, e non solo geograficamente, da quell'Occidente europeo dal quale essi erano partiti. nella Penisola Malese, a Sumatra e nello Sri-Lanka, quindi seguì la costa dell’India fino in Persia. L’ultima tappa del viaggio li portò a Costantinopoli e infine a Venezia. Poiché erano stati via per 24 anni, non è difficile immaginare che i parenti stentassero a riconoscerli; ormai Marco aveva 41 o 42 anni.

Di li a pochi anni, Marco Polo rimase coinvolto in uno scontro con navi mercantili genovesi e fu fatto prigioniero. Durante la prigionia, in carcere, nel 1298, conobbe Rustichello da Pisa, al quale dettò il racconto del suo viaggio, originariamente intitolato Divisament dou monde, la descrizione del mondo.


Marco Polo
Marco viene liberato nel 1299 e fa ritorno a Venezia dove, nello stesso anno, sposa Donata Badoèr dalla quale ha tre figlie, Fantina, Bellella e Moreta. Muore nel 1324, a settant'anni. Fra i suoi beni, oltre a proprietà, stoffe e oggetti orientali, vengono ritrovate le piastre d'oro che il Gran Kan consegnava a quelli che viaggiavano per lui, affinché fosse loro consegnato tutto il necessario per il viaggio attraverso i suoi sconfinati possedimenti











riferimenti bilbiografici

Marco Polo, il Milione, BUR, Milano, 1995
Ercolina Milanesi, Marco Polo, la via della seta lo porta in Cina, http://www.ercolinamilanesi.com/storici/polo.html
http://www.mitopositano.com/storia_cronologia_99.htm
http://www.liceoberchet.it/ricerche/4o_04/marcopoloelaviadellaseta.htm
http://www.trentoincina.it/mostrapost.php?id=285
http://www.sanpietroburgo.it/marco_polo.asp






domenica 17 aprile 2011

Un prete di nome Adamo alla corte dei Tang

Il cardinal Roger Etchegaray, nel suo volume Verso i cristiani in Cina scrive:

Lo scopo principale della mia presenza a Xi’an è compiere una sorta di pellegrinaggio alle sorgenti del cristianesimo in Cina. Per questo veniamo condotti verso la Foresta delle Stele. Nella Cina della carta e dell’inchiostro, tutti i luoghi sacri hanno la foresta delle steli, la loro biblioteca di pietre. Qui, vicino al tempio di Confucio, sono riunite più di mille steli incise sotto la dinastia dei Tang, fra le quali la stele di Si-Ngan-Fou scoperta all’inizio del XVII secolo, davanti alla quale mi soffermo a lungo, evocando le prime tracce del Vangelo in Cina.

Ma a che cosa si riferisce il cardinale? Vediamo di scoprirlo assieme.

Nel 1625 nello Shaanxi, provincia della Cina nord-occidentale, alcuni missionari gesuiti che vanno in giro nella capitale Xi’an, tentando di portare il Vangelo in quelle contrade, vengono un giorno chiamati da un funzionario che aveva sentito parlare loro di una religione dove c'era un signore che era stato messo su una croce e che appunto questi missionari veneravano.

Questo funzionario cinese da alcuni giorni ha ricevuto e ha sul tavolo un rapporto. Alcuni operai costruendo una casa, nel fare le fondamenta hanno scoperto un poderoso blocco di due metri di altezza e uno di larghezza. Su di essa c' è una lunga iscrizione in un cinese antico, che gli operai non riescono a leggere del tutto e quindi hanno chiamato l'intendente, il quale anche lui ha avuto qualche difficoltà a leggere, e immaginando che si trattasse di una cosa molto antica, aveva fatto chiamare un vecchio monaco buddista, che era noto per le sue cognizioni dei segni pittografici cinesi molto antichi, ed infatti costui riesce a leggere qualcosa dell'iscrizione; che parlano di fatti che non gli sono del tutto sconosciute, ma altri segni che sono pari a quelli cinesi antichi proprio non li capisce nemmeno lui.

Tuttavia la prima parte in cinese non è equivocabile, la scritta parla di una religione di cui il monaco nel suo monastero aveva avuto qualche vaga notizia, ma sa anche da chi l'ha appresa; chiama dunque un monaco che lui conosce e che si aggira da tempo anche lui in Cina per aver notizia delle dottrine orientali. Costui è Padre Trigauld, che vive in Asia già da una quarantina d'anni e ha perso i contatti con la sua sede principale che però non è Roma, ma Costantinopoli, anzi della scuola di Antiochia e conosce il siriaco. I due si aiutano a vicenda e riescono a leggere l'intera iscrizione.

Nella pietra, in cinese e proprio in lingua siriaca (ecco perché il cinese non capiva quei segni), si racconta di un monaco, padre Adamo, che qui aveva fondato una chiesa cristiana, con l'approvazione dell'imperatore, perché apprezzati i suoi sermoni che faceva alla gente parlando di giustizia divina e carità, non aveva avuto nulla in contrario che lui predicasse la sua religione e costruisse la sua chiesa. L'Imperatore era Taizong, il secondo imperatore della dinastia Tang, che era salito al trono nel 626 : grande mecenate e amante della cultura e considerato probabilmente il più grande sovrano della storia cinese.(per la cronaca, Taizong è stato il padre di Gaozong, marito di Wu Zetian, la prima e unica imperatrice cinese)

Taizong
Nella grande capitale imperiale, Luoyang, che contava circa un milione di abitanti, esisteva una certa tolleranza per tutte le religioni; dagli annali cinesi apprendiamo che esistevano 84 edifici buddisti, 36 taoisti, e... ben 28 erano edifici-chiese di manichei, cristiani nestoriani ed ebraiche

Quel povero monaco che era presente nel 1625 alla scoperta dell'iscrizione, credette di far bene nel mandare la notizia sia a Roma che a Costantinopoli, ma fu preso per pazzo; si disse che per voler ad ogni costo fare del protagonismo la pietra l'aveva fatta confezionare lui per eccesso di zelo, onde dimostrare ai cinesi che la sua religione era da lunga data già presente in Cina.

Invece in base alle notizie che abbiamo oggi, quel prete diceva proprio il vero.

la «Foresta delle Stele» di Beilin,( Beilin bowuguan) è la collezione di stele più antica e più ricca della Cina. Fu iniziata nel 1090 per conservare su pietra i classici della precedente dinastia Tang. Ora contiene più di 2300 tavole di pietra dei periodi Han, Wei, Sui, Tang, Song, Yuan, Ming e Qing. Le più interessanti sono le 14 stele (228 pagine) che portano i testi dei Dodici classici, scolpiti nell'837 (dinastia Tang), e di un altro classico, Il libro di Mencio, aggiunto durante il periodo Qing. Totalizzando circa 650.000 ideogrammi, costituiscono la più grande (e pesante) collezione di classici iscritti.

Museo "La foresta di stele"
In questo museo è conservata anche la cosiddetta Stele di Si-Ngan-Fou (meglio Xi’an Fu)citata nel libro. Questo blocco monolitico, alto circa tre metri, è la più antica testimonianza dell’insediamento in Cina del cristianesimo. La stele, eretta nell’anno 781 in uno dei monasteri nestoriani della regione, è coperta da 1750 caratteri cinesi e da 70 parole siriache.

Il titolo sulla pietra sormontato da una croce,ne indica con nove caratteri il contenuto:

大秦 景教 流行 中国 碑

Daqin Jǐngjiào liúxíng Zhongguo bei
In memoria della Propagazione in Cina della Religione Luminosa da Daqin


(Da Qin essendo il termine lingua cinese per i l’Impero Romano nel I° e II ° secolo d.C., e in epoche successive anche utilizzato per riferirsi alle Chiese cristiane siriache.)

Leggiamo ancora sul libro del cardinale:

Eccomi ora davanti alla toccante testimonianza che racconta di un monaco persiano giunto nell’anno 635 a Chang’an per predicarvi «la religione della luce i cui ministri portano la croce come un sigillo, viaggiano nelle quattro regioni del mondo e considerano tutti gli uomini uguali».

Fin dal 638, è inciso inoltre sulla stele, l’imperatore giudica di pubblica utilità la religione cristiana con il seguente editto: «Il vescovo Alopen ( 阿罗本: Āluóběn) del regno di Daqin, recando scritture e icone, è venuto da molto lontano e le ha presentate alla nostra capitale. Esaminatone accuratamente l’insegnamento, lo abbiamo trovato illuminante e libero da passioni. Dopo averne valutato i punti essenziali, siamo giunti alla conclusione che contengono ciò che è più importante nella vita. I loro principi sono così semplici che ci sono consegnati come pesci liberati dalla rete. Questa dottrina è salutare per ogni creatura e profittevole per tutti gli uomini. Deve quindi essere diffusa nell’impero». E, conclude l’iscrizione, «di conseguenza le autorità responsabili costruirono un monastero Daqin e ventuno preti vi furono assegnati»
Il contenuto della stele è stato composto dal monaco nestoriano, Jingjing ,

Una glossa in siriaco identifica Jingjing con Adamo, sacerdote, chorepiscopus e papash di Sinistan' (w'papash w'kurapisqupa qshisha Sinistan d'Adamo).

Anche se il termine papash (letteralmente Papa) è inusuale, e il nome siriaco per la Cina è Beth Sinaye, non Sinistan, non c'è motivo di dubitare che Adamo era il metropolita della provincia ecclesiastica nestoriana di Beth Sinaye, creato mezzo un secolo prima, durante il regno del patriarca Sliba-xkha (714-28).

I nomi di alcuni alti prelati e circa settanta monaci o sacerdoti sono elencati. I nomi dei clero appaiono sulla parte anteriore della pietra, mentre quelle dei preti e monaci sono inscritti in fila lungo i lati stretti della pietra, sia in siriaco e cinese.

Due secoli più tardi, tuttavia, alla fine della dinastia dei Tang, un decreto imperiale dell’845 sancì la proscrizione delle religioni straniere: in quella occasione la stele fu sepolta e non se ne seppe più nulla per secoli. Una missione inviata dal patriarca caldeo alla fine del X secolo non trovò più traccia di cristiani; ma, secondo quanto riportato da Marco Polo, piccole comunità cristiane sopravvissero ancora a lungo in alcune province cinesi.

Ma chi erano i nestoriani?


Nestorio
Nestorio ( 381-451) Nato a Germanicia, in Siria, studiò ad Antiochia e fu monaco del convento di Euprepio. Nel 248,fu nominato Patriarca di Costantinopoli, Durante le dispute cristologiche del V secolo, i suoi avversari gli attribuirono erroneamente la dottrina - che sostiene che alle due nature, divina e umana, di Cristo corrisponderebbero anche due persone - condannata come eretica dal Concilio di Efeso nel 431 anche se Nestorio mai la sostenne.

Nel Novecento, la scoperta di un suo scritto, il Liber Heraclidis (Libro di Eraclide), e nuovi studi intrapresi sul conflitto che lo oppose al vescovo Cirillo di Alessandria, hanno riconosciuto che la condanna di Nestorio fu ingiusta e che la sua teoria cristologica è conforme alla dottrina ortodossa stabilita nel successivo Concilio di Calcedonia del 451, per la quale nell'unica persona di Cristo sussistono due nature.

Nestorio nel 435 fu esiliato nell'oasi di El Kharga, presso Tebe, in Egitto, dove morì intorno al 51.

I suoi sostenitori,esiliati o espulsi dall’impero bizantino, costituirono una Chiesa separata, che si sviluppò in Assiria, in Caldea (la zona del medio e basso corso dei fiumi Tigri ed Eufrate) e in Persia, prevalendo sugli ortodossi e portando nel tempo la loro predicazione fino all'India ed alla Cina.

Un giorno (dopo la conquista araba) da documenti tenuti nascosti perché parlavano questi di Nestoriani, -che erano considerati immeritatamente dagli ortodossi eretici- saltò fuori che un prete di nome proprio Adamo (Aloben ?) era stato mandato in Oriente per conoscere quella gente, ma che non aveva fatto più ritorno. Costui invece era arrivato in Cina nel momento più favorevole, cioè all'inizio della dinastia Tang così permissiva, e vi aveva fondato una chiesa, e dopo questa ne erano venute molte altre, e che solo alla fine di quello stupendo periodo della dinastia, erano poi state spazzate via dal nuovo buddhismo distrutte tutte le chiese, i convertiti più in vista trucidati, molti fuggiti.

Alopen

Ma molti rimasero, come se niente fosse accaduto, mantenendo il silenzio per 800 anni sulla presenza dei cristiani in Cina. Ci sarà poi la meteora e la leggendaria personalità del "Prete Gianni" (di cui parleremo un’altra volta), ma sappiamo che più nessun prete cristiano mise più piede in Cina, e quando questo avvenne nel 1338, i primi missionari cristiani che si recarono in Oriente trovarono proprio in Cina in mezzo alle dottrine buddiste un retaggio di religione nestoriana e perfino negli annali un re che nel 1125, Yilutashi, professava la religione nestoriana.

In quel 1338 ad Avignone nuova sede Papale, furono suonate le campane a festa, perchè dalla lontana Cina padre Andrea (un altro avventuroso missionario) conduceva con sè 15 principi dignitari del Gran Khan cinese che portavano doni; già si gridò al miracolo credendo che la Cina era stata convertita; Andrea lesse il messaggio in pubblico, meno l'ultima parte, che lesse solo davanti al Papa. Ed era tutto una bolla di sapone. In Cina di Cristianesimo non ne volevano sentire parlare, nè volevano missionari di altre religioni nei propri territori. Era l'anno dell'ascesa della dinastia Ming.


Riferimenti bibliografici

Roger Etchegaray, Verso i cristiani in Cina. Visti da una rana dal fondo di un pozzo, Uomini e religioni, Mondadori, Milano, 2005, pagg.31-33.

Peter Brown, La formazione dell’Europa cristiana, Biblioteca storica, Laterza, Bari,2006, pagg.349-350.

http://en.wikipedia.org/wiki/Nestorian_S













venerdì 8 aprile 2011

Frate Giovanni da Montecorvino, il primo vescovo di Pechino alla corte del Gran Khan

Marco Polo rimase al servizio di Qublai Khan, imperatore della Cina, per diciassette anni ma non fece in tempo a vedere insediato nella Città Proibita il primo vescovo cattolico di Pechino, il francescano Giovanni da Montecorvino. Della memoria di questo straordinario personaggio, che visse alla corte dei Khan per 34 anni, molto si è perduto. E questo perché la Chiesa nata per la sua attività missionaria non resistette alla cacciata dei Mongoli e all’insediamento della dinastia Ming (1368) che chiuse il Paese alle influenze straniere. Inoltre Giovanni non fece mai ritorno in Europa, e le fonti storiche sulla sua attività sono scarse e frammentarie.

La missione di frate Giovanni da Pian del Carpine presso il Gran Khan dei Mongoli Güyük, si era rivelata un fallimento: il Gran Khan aveva rifiutato ogni proposta del papa Innocenzo IV e anzi aveva ingiunto al pontefice e a tutti i principi cristiani di sottomettersi alla sua autorità. Tuttavia, con il suo avventuroso viaggio, fra Giovanni aprì la strada a successive spedizioni, compresa quella di Marco Polo, di cui fu precursore di ben ventisette anni.

E quando i Polo, poco dopo il 1260, giunsero alla corte del Khan, trasferita nel frattempo a Khambaliq (Pechino), vi trovarono un nuovo imperatore curioso e ben disposto, Qublai. Ai mercanti veneziani il Kahn «dimandò di messere il papa e di tutte le condizioni della Chiesa romana e di tutte le usanze dei latini». Il ritorno dei Polo, nove anni dopo, fu foriero di buone nuove per il Pontefice. Qublai aveva chiesto loro di tornare accompagnati da uomini di scienza che istruissero i tartari sulla religione cristiana e, per sé, desiderava un po’ dell’olio che ardeva nella lampada del sepolcro di Cristo.

Ma i Polo tornarono soli in Cina. I domenicani che il Papa aveva inviato con loro non giunsero sino a Pechino. Il giovane Marco, figlio di Niccolò, rimase al servizio di Qublai per diciassette anni, ma non fece in tempo a vedere insediato nella Città proibita il primo vescovo cattolico di Pechino, un altro francescano, anche lui di nome Giovanni, Giovanni da Montecorvino.

Giovanni da Montecorvino (1246-1328) entrò nell'ordine francescano dei frati minori dopo aver trascorso una giovinezza ricca di soddisfazioni mondane. In quel tempo l'ordine francescano si occupava principalmente della conversione degli infedeli, perciò verso il 1279 venne inviato con altri frati a predicare il messaggio cristiano in Armenia, Persia e altre regioni mediorientali.

Nel 1286 Arghun, il Khan di Persia, inviò una richiesta al Papa attraverso un vescovo nestoriano, Rabban Bar Sauma, chiedendo l’invio di missionari cattolici presso la Corte del grande Imperatore cinese, Kublai Khan, che era simpatizzante del messaggio cristiano. Verso il 1289 Giovanni da Montecorvino tornò a Roma con notizie simili, e papa Nicola IV, primo papa francescano, gli affidò l’importante compito di impiantare delle missioni nell’Estremo Oriente, dove ancora era presente il famoso Marco Polo.

Ma seguiamo anche questa volta le orme del nostro frate Giovanni (il secondo della serie) attraverso le sue peripezie per giungere in Oriente…

Fra’ Giovanni iniziò il suo viaggio nel 1289, avendo con sé delle lettere per il Khan Arghun, il grande imperatore Kublai Khan, il principe dei Tartari Kaidu, il re del Regno armeno di Cilicia ed il patriarca della Chiesa ortodossa siriaca. Lasciò Rieti, dove era la curia papale, il 15 luglio, e munito delle più ampie facoltà per la diffusione del Vangelo fra i popoli dell'Asia, da Ancona raggiunse dapprima Antiochia (l’odierna Antakya in Turchia) e la Georgia e passò poi a Sis, la capitale dell'Armenia, e a Tabriz sede del re di Persia. Qui svolse per breve tempo il suo apostolato, ospite gradito nei conventi dei Minoriti e dei Domenicani.

Nel 1291, a 44 anni e con due soli compagni, Nicolò da Pistoia e Pietro Lucalongo, ricco e pio mercante italiano, fra Giovanni riprese il suo cammino apostolico e da Tabriz si diresse verso Seres e poi a Ormuz sul Golfo Persico importantissimo scalo dell'attivissimo commercio indo-cinese. Da Ormuz prese la via del mare ed approdo in India, dove rimase per 13 mesi. Si soffermò sulla costa Malarica, presso Madras, dove secondo un'antica tradizione erano custodite le spoglie mortali dell'apostolo S. Tommaso. E qui, Fra Giovanni eresse la prima chiesa latina, vi battezzò i primi cento fedeli che per la sua predicazione si erano convertiti al Cristianesimo. In questa terra, dopo breve, morì l'amico e compagno di viaggio Fra Nicola, il domenicano e, il nostro frate dovette proseguire il suo viaggio verso la Cina in compagnia del coraggioso mercante genovese. Fu fatta la scelta di raggiungere la Cina per via mare e non per via terra, come avevano fatto i Polo, e fu una scelta coraggiosa, se si considera che allora si navigava con mezzi di fortuna, ci si affidava alla spinta dei venti e all'improvvisazione, senza contare i mille pericoli in agguato tra pirateria e vari imprevisti.

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La prima città cinese toccata fu Senkalà (Canton), grande tre volte Venezia, proseguì per Quanzhou nel Fujian che era uno dei più grandi porti del mondo con circa un milione di abitanti, ricca di templi e monasteri buddisti, percorsa da commercianti provenienti da tutto il mondo in cerca di sete preziose, giada, profumi e spezie varie.

Questa fu la meta del mercante genovese e Fra Giovanni attraversò il Fujian sino a Kinsaj, dai 12000 ponti raggiunse Yanzhon e da qui si imbarcò sul canale imperiale e con destinazione Khambaliq (Pechino).

Il Grande Canale imperiale
Era il 1294 erano trascorsi 5 anni dalla sua partenza, Giovanni consegnò la lettera del Papa Nicolò IV, ormai defunto, nella quale questi esprimeva il suo più vivo compiacimento per il desiderio del Khan di avere nel suo territorio missionari della Chiesa di Roma. Arrivato a corte, scoprì che purtroppo anche Kublai Khan era appena morto e che Temür Khan (1265-1307) gli era succeduto al trono.

Fra’ Giovanni Iniziò subito il suo apostolato missionario, invitando lo stesso Gran Khan ad abbracciare la fede cristiana, ma lo trovò tenacemente legato all'idolatria, sebbene benevolo verso i cristiani: il Gran Khan fece infatti riservare al legato pontificio uno speciale appartamento della città proibita, privilegio non accordato ai rappresentanti delle altre religioni e concesse infatti a fra’ Giovanni di annunciare liberamente il Vangelo in mezzo ai Tartari.

Straordinaria fu la portata dell’azione missionaria di frate Giovanni e la sua capacità di adattamento alla cultura locale: egli celebrava la messa in lingua tartara e fece grandi sforzi per approntare una traduzione del salterio, del Nuovo Testamento e del messale. Un’attività notevole, se si pensa che Giovanni visse da solo in Cina per undici anni, dimenticato da tutti, finché arrivò presso di lui frate Arnaldo di Colonia. Quando riuscì a far pervenire sue notizie in Europa, con una lettera dell’8 gennaio 1305, tutti ormai lo credevano perduto.

Più fortuna ebbe invece la sua predicazione con il re di Tenduc, Giorgio, nestoriano, (menzionato da Marco Polo ne Il Milione.) che non solo abbracciò la fede cattolica, ma volle ricevere anche gli Ordini minori, attraendo poi verso la sua nuova tede non pochi sudditi, e costruendo per essi una chiesa dedicata alla S.ma Trinità e detta "Chiesa romana" in onore del papa e del suo legato.

Tenduc è una provincia verso levante, ov'à castella e cittadi assai. E' sono al Grande Kane, e sono discendenti dal Preste Giovanni. La mastra cittade è Tenduc. E de questa provincia è re uno discendente de legnaggio del Preste Giovanni, e ancora si è Preste Gianni, e suo nome si è Giorgio. Egli tiene la terra per lo Grande Kane, ma non tutta quella che tenea lo Preste Gianni, ma alcuna parte di quelle medesime. E sí vi dico che tuttavia lo Grande Kane à date di sue figliuole e de sue parenti a quello re discendente del Preste Gianni…La terra tengono li cristiani, ma e' v'à degl'idoli e di quelli ch'adorano Maccometo. Egli sono li piú bianchi uomini del paese e i piú begli e i piú savi e i piú uomini mercatanti. (Marco Polo, Il Milione, cap 73, della provincia di Tenduc)

Per questo fu accusato di apostasia dai nestoriani (che già si trovavano in Cina) che accusarono Giovanni di essere un impostore, mago e falso legato papale. Tutto ciò creò grandi difficoltà per l'apostolato di Giovanni che, peraltro, riconosciuto innocente dinanzi al Gran Khan, poté riprendere con successo la sua opera. Apprese in profondità la lingua del paese e tradusse in mongolo il Nuovo Testamento e il Salterio, pensando anche alla traduzione di tutto il Breviario, perché insieme alla predicazione, alle immagini fatte dipingere in chiesa, al canto e al suono, divenissero strumenti più efficaci di evangelizzazione.

Giovanni lavorò in totale solitudine per ben 11 anni finché nel 1304 un legato tedesco, Arnoldo di Colonia, fu inviato ad aiutarlo. Ma la sua azione missionaria non poteva estendersi se non fosse sopraggiunto un aiuto dalla cristianità. Alla sua seconda lettera, del 13 febbraio 1306, Clemente V rispose inviando in Cina un gruppo di frati francescani, tra cui sette vescovi, perché raggiungessero fra Giovanni e lo consacrassero arcivescovo di Pechino.

Tre di quei vescovi (Nicolò da Banzia, Ulrico da Seyfridsdorf e Andreuccio da Assisi) non giunsero a destinazione, essendo morti nel viaggio attraverso l'India; uno ritardò la sua partenza (Guglielmo da Villanova); ma vi giunsero con molti missionari gli altri tre (Andrea da Perugia, Gerardo Albuini e Pellegrino da Città di Castello), tra il 1309-1310. Fu allora che, con la consacrazione di Giovanni e con i tre suffraganei superstiti, ai quali si aggiunsero poi il ritardatario Guglielmo e, nel 1311, altri tre vescovi (Pietro da Firenze, fra Tommaso e Girolamo di Catalogna), venne anche organizzata la prima gerarchia di Cina con le sedi di Khambalik, Zayton e Caffa.

Alla sua morte, avvenuta nel 1328 all’età di 81 anni, fu venerato come santo.

La Chiesa cinese gli sopravvisse tuttavia per soli quarant’anni, anche perché la peste nera del 1348 aveva decimato i frati minori, impedendo così l’invio di nuovi missionari. Inoltre la comunità cristiana non resistette alla cacciata dei Mongoli e all’insediamento della dinastia Ming (1368) che chiuse il Paese alle influenze straniere.

Ciononostante, la sua memoria non scomparve del tutto. Giovanni era riuscito in modo insperato e inaspettato, a deporre un seme che sarebbe rimasto sepolto per oltre due secoli, fino all’arrivo dei gesuiti e alla ripresa dei rapporti tra Occidente e Cina nell’epoca delle grandi colonizzazioni…

ma anche questa è un’altra storia!


Riferimenti bibliografici

http://it.wikipedia.org/wiki/Giovanni_da_Montecorvino

http://www.santiebeati.it/dettaglio/36100

venerdì 1 aprile 2011

«Mission impossible»: Il papa Innocenzo IV chiede a frate Giovanni di convertire l’imperatore della Cina

Percorrendo più di 10.000 chilometri «per poter portare a compimento la volontà di Dio, secondo l’incarico del signor papa e per essere in qualche modo d’aiuto ai cristiani», frate Giovanni raggiunse la tenda del Gran Khan dei Mongoli, imperatore della Cina, il 22 luglio del 1246 recando con sé due lettere papali. Fu il primo occidentale a ritrovarsi faccia a faccia col sovrano più temuto della terra, quindici anni prima dei fratelli Matteo e Niccolò Polo. La sua missione costituì il primo, esile filo di contatto tra l’Occidente e quel mondo così distante. nella sua opera Historia Mongalorum che scrisse al ritorno dalla sua missione, ci ha lasciato una preziosa testimonianza sugli usi e i costumi dei Mongoli.

Siamo nel 1227: muore Gengis Khan, fondatore dell’impero mongolo, e il figlio Batu si appresta a colpire il cuore dell’Europa con le orde dei suoi Tartari. Cavalieri spietati e feroci, essi conquistano gli altipiani iranici, annientano i principati russi e compaiono improvvisi, nel 1241, alle porte di Cracovia. Per un anno intero Polonia, Ungheria e Balcani, fino alle coste dell’Adriatico, sono devastati dalle truppe del generale Batu. Poi, improvvisamente, alla notizia della morte di Ögödai, suo fratello e Gran Khan in Mongolia, con la stessa velocità con cui erano apparsi, si ritirano, per essere di nuovo inghiottiti dalle steppe eurasiatiche e ritrovarsi a Karakorum, capitale di un impero immenso, dal Pacifico agli Urali.

Lo sgomento in Europa è grande, temperato solo dalle notizie delle sconfitte subite dai musulmani ad opera dei mongoli. Il papa Innocenzo IV, aprendo nel 1245 il Concilio di Lione, pone la questione del Remedium contra Tartaros: si decide di inviare a Karakorum un legato pontificio, per chiedere al Khan la conversione dei Tartari e la rinuncia alla conquista dell’Europa in vista di una possibile alleanza contro l’islam. La scelta cade sul francescano Giovanni da Pian del Carpine.

Giovanni da Pian del Carpine era nato a Magione (Perugia) nel 1182: nel 1215 era entrato nell'Ordine dei Frati Minori ed era stato tra i primi compagni di Francesco d’Assisi. Come frate minore aveva fatto parte della missione inviata da Francesco in Sassonia: aveva predicato ad Augusta, Magonza, e Colonia. Nel 1228 era stato ministro provinciale in Germania e poi in Spagna e infine nuovamente in Germania. Questo lungo periodo trascorso in vari paesi europei aveva affinato le sue capacità diplomatiche ed abituato il suo fisico e il suo carattere alle più impensabili situazioni. Proprio per queste sue qualità il papa Innocenzo IV aveva pensato a Giovanni da Pian del Carpine come alla persona ideale per guidare una ambasceria diretta al Gran Khan dei Mongoli, ambasceria che doveva passare per le terre russe.

A quell'epoca frate Giovanni era vicino ai 65 anni ed oltretutto piuttosto grasso: il viaggio che lo aspettava era il più difficile e pericoloso che un uomo potesse affrontare, ma egli vi si dedicò senza particolari preoccupazioni. Ma ripercorriamo questo avventuroso viaggio nei suoi particolari.

...Cosí prendendo cammino arrivammo al re di Boemia, il quale, essendo nostro familiare, ci consigliò che ci aviassimo verso Polonia e Rossia, perché in Polonia aveva della sua stirpe, con l'aiuto de' quali potressimo intrar in Rossia...

Partì da Lione il 16 aprile del 1245 e fece una prima tappa a Cracovia: là incontrò alcuni rappresentanti dell'aristocrazia russa fra cui il principe Vasil'ko di Volinia che descrisse dettagliatamente la situazione di soggezione in cui era caduta la Russia dopo l'invasione mongola. Il principe suggerì a frate Giovanni di procurarsi dei doni per il Gran Khan perché un ambasciatore che gli si fosse presentato a mani vuote non sarebbe stato né rispettato e né preso in considerazione. Così frate Giovanni comprò delle pellicce pregiate e riprese il suo viaggio fino a Kiev, protetto da una scota del principe. Cavalcando lungo le terre della Russia meridionale frate Giovanni poté constatare di persona la devastazione apportata dai Mongoli: molte città erano state completamente distrutte; tutti gli abitanti erano stati trucidati e dappertutto erano visibili resti di ossa umane; la stessa Kiev non contava più di qualche centinaio di case e i suoi abitanti erano ridotti in schiavitù. Anche a Kiev frate Giovanni ricevette l'aiuto dei principi russi che gli procurarono dei cavalli mongoli, più capaci, rispetto agli altri, di brucare l'erba anche da sotto la neve riuscendo a sopravvivere anche d'inverno.

…Essendo adonque venuti in Kionia, auto consiglio del nostro camino col caporale e altri nobili, ne fu risposto che, se conducessimo li nostri cavalli nelli confini de Tartaria, fosse gran neve tutti morirebbono, conciosiaché non saperebbono cavare l'erba sotto la neve come li tartareschi,…

Da Kiev i due religiosi andarono verso sudest e poi a est attraverso la sconfinata pianura coperta di neve dirigendosi verso il mare di Azov: finalmente vennero a contatto con gli avamposti del territorio mongolo: furono scortati fino dal principe di Corenza, governatore delle provincia più occidentale della Tararia:


…Era la sesta feria poi lo primo giorno di quadragesima, e giva il sol a monte, quando, posti ad alloggiare, corsero sopra noi Tartari orribilmente armati; e cridando che uomini fossemo, fu lor risposto noi esser ambasciatori del signor nostro papa de' cristiani, …le qual cose udite, li Tartari dissero voler dar cavalli e guida che ne conducessero fino a Corenza. …Pervenuti adonque alla sua corte…furono eziandio offerte le lettere del signor nostro papa, ma l'interprete che da Kionia con pagamento avevamo menato con noi non era sufficiente ad interpretarle, né manco si ritrovava alcun altro; dove, datigli cavalli e tre Tartari che ne guidassero, se n'andammo al Baty. Questo è appresso loro il piú possente, salvo l'imperatore, a cui tutti son tenuti obedire piú che ad altro principe...

Il 4 aprile 1246 arrivarono così all'accampamento di Batu Khan del Capciac (comandante in capo delle forze mongole in Europa e principe più importante dopo il Gran Khan), in riva al fiume Volga, poco a monte della moderna città di Astrakan.

Si partimmo la seconda feria poi la prima domenica di quadragesima, e sempre cavalcammo tanto quanto potevamo trovar li cavalli, perciò che tre e quattro fiate avevamo cavalli da nuovo, ogni giorno dalla mattina sino alla notte, anzi spesso di notte s'affrezzavamo, né perciò potessimo aggiunger nanti il mercordí santo.

La prima accoglienza del Khan fu rude e diffidente: I due frati furono ammessi alla presenza del Khan Batu solo dopo che furono passati tra due roghi ardenti, cerimonia che aveva lo scopo di togliere ogni potere alle sostanze venefiche o malefiche che i frati nascondessero sotto il saio.

…Ne fu detto esser necessario prima passar per mezo due fochi, ma noi questo per nissun modo volevamo fare. Quelli ci dissero: “Andate securamente, che per altra causa non facciamo se non che, portando voi qualche mal pensiero al nostro signore, over veneno, il foco vi lievi ogni cosa nociva”. A' quali rispondemmo che, acciò di tal cosa non avessero sospizione, volentieri eramo apparecchiati di passare…


Al campo di Batu Frate Giovanni vide con i propri occhi a quale livello di soggezione i Mongoli avessero ridotto il popolo russo. In seguito però Batu si mostrò benigno al punto che i due frati quattro giorni dopo poterono riprendere il cammino verso est, scortati da un piccolo maipolo di Tartari.

Il nostro cammino era per Comania, cavalcando fortissimamente, conciosia non mancasse da mutar cavalli cinque e piú fiate al giorno, salvo quando camminavamo per li deserti; ma allora toglievamo cavalli migliori e piú forti, che potessero sostenire la continua fatica. È Comania terra grandissima e longa, li popoli della quale li Tartari hanno destrutta, benché altri scamporno che poi son tornati e fatti suoi servi...Poi intrammo nella terra de' Kangiti, la quale in molti lochi ha grande carestia d'acqua, e dove pochi abitano, non gli essendo acque. … Per questo paese e per Comania eziandio trovammo giacer in terra molti capi e ossi di morti, come in sterquilinio. Fu lo nostro cammino dall'ottava di Pasqua fino a l'Ascensione… Usciti del paese de' Kangiti intrammo nella provincia de' Bisermini, che parlano in lingua comana, ma tengono la legge de' Saracini; eziandio in questo paese trovammo infinite città con castelli minate e molte ville deserte… Per questi luoghi andammo dall'Ascensione fin quasi ad otto giorni nanti la festa di santo Giovanni Battista; poi intramo nella terra delli Kithai neri, nella quale l'imperatore ha edificato un palazzo dove etiam fummo invitati a bere...

...Partiti la vigilia di san Pietro e Paulo, entrammo nella terra de' Naimani, che son infideli. Nel giorno delli Apostoli cascò una gran neve e avessimo un gran freddo. Questo paese è frigidissimo e pieno di monti, e ha poco piano; queste genti, come li Tartari da' quali erano soggiogate, non lavorano e abitano ne' padiglioni. Passati per questo luoco molti giorni, venimmo al paese de' Tartari; qui cavalcando velocemente tre settimane, il giorno di santa Maria Maddalena pervenimmo a Cuyne, eletto imperatore … levavamo la mattina per tempo e, senza mangiare, cavalcavamo fino a sera, e spesse fiate cosí tardi venivamo che non si trovava che mangiare, ma quel che dovevamo aver cenato davasi la mattina; e mutati spesso li cavalli, senza perdonarli, senza alcuna intermissione, velocemente quanto potevano trottare, tanto li sforzavamo.

In tre mesi e mezzo di rapidissimo viaggio a cavallo attraverso un paese disseminato di ossami, di rovine di castelli e di ville, percorsa la steppa dei Chirghisi, varcati i fiumi Sir Daria e Ili, attraversata la Zungaria ancora coperta di nevi, l'ambasceria del papa giunse finalmente nell’agosto 1246 allo 'accampamento imperiale di Sira Ordu (presso Karakorum) dopo circa 5.000 km percorso in (soli!) 105 giorni di viaggio in tempo per assistere alla "kuril tay" (= assemblea) che elesse il Gran Khan Güyük.

Dovettero però aspettare quattro mesi prima di essere ricevuti dal Gran Khan: quest'ultimo, infatti, non era ben disposto nei loro confronti poiché si erano presentati a mani vuote (tutte le pellicce pregiate comprate da frate Giovanni erano state incamerate infatti da Batu).

Il Gran Khan aveva persino ordinato che fosse data loro una piccola quantità di cibo e neanche tutti i giorni. Se non fosse stato per il buon cuore di un orafo russo al servizio del Gran Khan, che di nascosto passava le vivande ai frati, probabilmente sarebbero morti di fame.

Però, in occasione della solenne incoronazione del Gran Khan, i frati ebbero l'opportunità di assistere alla fastosa sfilata delle ambascerie barbariche arrivate al campo tartaro, quasi una rassegna di tutte le popolazioni dell'Asia.

...Quivi era teso un padiglione di scarlatto bianco, di tal grandezza che a nostro giudicio potevano ben star entro duemila uomini; era fatto atorno il circuito un palco di legname, over steccato, con varie figure a maraviglia dipinto. Qui andammo noi con li Tartari che a guardia nostra erano assegnati, e già tutti i principi erano venuti insieme, e ciascun d'intorno cavalcava con li suoi fanti per pianure e colli. Il primo giorno tutti si vestirono di scarlatto bianco, il secondo di rosso, e allora venne Cuyne al padiglione, ma il terzo giorno tutti furono in scarlatto turchino, il quarto in bellissimi baldaquini...Cosí li principi infra il padiglione parlavano insieme e trattavano la elezione dell'imperatore, ma tutto il popolo dimorava da lontano fuori dello steccato, e cosí stavano insino a mezogiorno; allora si cominciava a bever latte di cavalle, e fin alla sera tanto ne bevevano che era cosa mirabile a vedere. Noi eziandio chiamaron piú entro e ne diedero della cervosa, e questo ne fecero per segno di onore, ma tanto ne sforzavano a bevere che per niun modo tal consuetudine potevamo sostenere; onde mostrammo questo esserne grave, per il che cessorno far tal sforzo.

Finalmente nel novembre del 1246 frate Giovanni fu ricevuto dal Gran Khan. e poté consegnare a un ufficiale della Corte la missiva del Papa.


In quel luoco dove fu posto l'imperatore nella sedia fummo chiamati nanti la stanza, e, poi che Ginghay, protonotario suo, ebbe scritto li nostri nomi e di coloro da' quali eramo mandati, e del prince de' Solanghi e degli altri, cridò in alta voce recitando quelli all'imperatore e università de' signori. La qual cosa fatta, ogniun di noi quattro fiate inchinosse col ginocchio sinistro; ne avvisorno che non toccassimo il soglier della porta e, poi che con diligenzia fummo cercati, non ci trovarno arme alcune adosso. Entrammo per la porta dalla parte orientale, però che da l'occidente niuno passa se non l'imperatore; il simile fa uno principe nel suo padiglione, ma gli altri non fanno molto stima di tal cosa. Allora primamente venimmo alla sua presenzia, e nella stanza, cioè dopoi che fu dichiarato imperatore, tutti eziandio gli ambasciatori furono ricevuti da quello, ma pochissimi entrorno nel suo padiglione. Molti doni furono presentatili da loro, ch'erano vasi infiniti, cioè sciamiti, scarlatti, baldaquini, centure di seta lavorate d'oro, pelli nobilissime e altri presenti...E noi fossimo richiesti se li volevamo far presenti, ma già non era possibilità, conciosiaché tutto quasi il nostro avevamo consumato in tal arte. Nel medesimo luogo, longi dalle stanze, sopra un monte, stavano piú de cinquecento carrette, le quali tutte erano piene d'oro e argento e drappi di seta, e ciò fu diviso fra l'imperatore e capitani, i quali dopoi distribuirono come gli piacque a' suoi la parte che gli era toccata.

Purtroppo il contenuto delle bolle che il papa gli aveva dato non era il più adatto per ricercare un'alleanza: il Gran Khan veniva trattato come un inferiore e dall'alto il papa imponeva ai Mongoli di pentirsi dei loro peccati, di smetterla di sterminare i cristiani e di battezzarsi. La risposta alle lettere papali giunse dopo qualche giorno: il Gran Khan rifiutava ogni proposta del papa anzi ingiungeva al pontefice e a tutti i principi cristiani di sottomettersi alla sua autorità.

Qualche giorno dopo ricevettero (per interposta persona) la risposta del Gran Khan Güyük:. Il testo più o meno è questo:

"Io Gran Khan Güyük, imperatore di tutti i credenti, chiedo a te, Innocenzo, di raggiungere di persona la mia reggia se la tua speranza è davvero quella della pace. Voi abitanti dell'Occidente pensate sempre di essere i soli depositari della fede giusta e disprezzate le altre religioni. Ma come potete essere così presuntuosi da sapere a chi Dio concederà la sua grazia?".

Il risultato immediato della missione di Fra Giovanni da Pian del Carpine era nullo:senza por tempo in mezzo e rinunciando a prendere con loro un inviato mongolo come era stato consigliato, si rimisero in cammino: era il 13 novembre 1246.

Tra infiniti stenti,dormendo spesso al riparo di un mucchio di neve o di una fossa, rifecero la via che avevano già percorsa fino al campo del Khan Batu; ci arrivarono il 9 maggio 1247. Dal campo si diressero verso Kiev, dove lo accolsero con grande gioia e gli fecero le congratulazioni come se fosse tornato dal regno dei morti. Fu nuovamente ospite del principe Vasil'ko di Volinia che diede un banchetto in suo onore. Giunse infine a Lione dal papa nel novembre del 1247. L'anno successivo frate Giovanni fu nominato arcivescovo e inviato in Montenegro. Morì nella sua diocesi nel 1252.

Bisogna dire che quella di frate Giovanni fu anche una missione esplorativa e di spionaggio, come risulta evidente dalla relazione che ne fece, ricchissima di notizie geografiche, politiche e militari, e conclusa da abbondanti consigli su come combattere i mongoli. La lunga attesa a Karakorum diede infatti la possibilità a frate Giovanni di conoscere gli usi e i costumi dei Mongoli lasciandoci una preziosa testimonianza nella Storia dei Mongoli, l'opera che scrisse al ritorno dalla sua missione.

Dalle pagine della sua cronaca apprendiamo tante notizie sul suolo,sul clima, sui costumi, sui riti, le abitazioni, le vesti, le guerre dei Mongoli e anche di altre genti (Russi, Bulgari, Baschiri, Cinesi, Samoiedi). Questa può essere considerata la più antica descrizione storico-geografica dell'Asia Centrale ricca di notizie relative alle tecniche di guerra, ai nomi delle armi, e di indicazioni sulla religione animistica di quei popoli.

Frate Giovanni aprì la strada a successive spedizioni, compresa quella di Marco Polo, di cui fu precursore di ben ventisette anni. E quando i Polo, poco dopo il 1260, giunsero alla corte del Khan, trasferita nel frattempo a Khambaliq (Pechino), vi trovarono un imperatore curioso e ben disposto, Qublai. Ai mercanti veneziani il Kahn «dimandò di messere il papa e di tutte le condizioni della Chiesa romana e di tutte le usanze dei latini». Il ritorno dei Polo, nove anni dopo, fu foriero di buone nuove per il Pontefice. Qublai aveva chiesto loro di tornare accompagnati da uomini di scienza che istruissero i tartari sulla religione cristiana e, per sé, desiderava un po’ dell’olio che ardeva nella lampada del sepolcro di Cristo.

Ma i Polo tornarono soli in Cina. I domenicani che il Papa aveva inviato con loro non giunsero sino a Pechino. Il giovane Marco, figlio di Niccolò, rimase al servizio di Qublai per diciassette anni, ma non fece in tempo a vedere insediato nella Città proibita il primo vescovo cattolico di Pechino, un altro francescano, anche lui di nome Giovanni, Giovanni da Montecorvino.

Della memoria di questo straordinario personaggio, che visse alla corte dei Khan per 34 anni, molto si è perduto. E questo perché la Chiesa nata per la sua attività missionaria non resistette alla cacciata dei Mongoli e all’insediamento della dinastia Ming (1368) che chiuse il Paese alle influenze straniere. Inoltre Giovanni non fece mai ritorno in Europa, e le fonti storiche sulla sua attività sono scarse e frammentarie
… ma questa è un’altra storia!



Riferimenti bibliografici:

Giovanni da Pian del Carpine, Storia dei Mongoli, Daniele Lucchini, Mantova, 2007
http://it.wikipedia.org/wiki/Giovanni_da_Pian_del_Carpine
http://www.fmboschetto.it/didattica/fra_giovanni_da_pian_del_carpine.htm
http://www.mongolia.it/giovanni_contenuto.htm
http://it.cathopedia.org/wiki/Giovanni_da_Pian_del_Carpine
http://italian.ruvr.ru/2010/08/10/15178038.html
http://www.30giorni.it/it/articolo.asp?id=1695