Dao De Jing

Senza uscire dalla porta di casa puoi conoscere il mondo,
senza guardare dalla finestra puoi scorgere il Dao del cielo.
Più si va lontano, meno si conosce.
Per questo il saggio senza viaggiare conosce,
senza vedere nomina, senza agire compie.
Dao De Jing, Lao Zi

martedì 28 giugno 2011

Cheng yu: pillole di saggezza cinese

Chi di noi, un po’ seriamente, un po’ per gioco, non ha mai esordito, parlando con gli amici, con l’espressione: “Un proverbio cinese dice …” pronunciando poi qualche “sentenza”, magari inventata lì per lì, giusto per attirare l’attenzione o per far ridere. Il fatto che a noi italiani piaccia introdurre nei nostri discorsi delle massime “cinesi”, dimostra la nostra simpatia per quella cultura millenaria di cui, appunto, proverbi ed aforismi costituiscono una parte preziosa.

Ogni lingua fa ricorso ad espressioni idiomatiche, a metafore, a proverbi a sentenze: il cinese è senza dubbio la lingua che usa tali forme espressive più di qualunque altra. Un contributo alla comprensione del modo di pensare cinese può senz’altro derivare dalla analisi dei chengyu, (成语chéng yǔ, lett: «frasi fatte») aforismi, proverbi letterari, vere e proprie “pillole di saggezza” che nascondono riflessioni, insegnamenti, norme, credenze popolari. La maggior parte di queste massime derivano da testi classici e da poesie, altre da aneddoti, leggende e storie popolari. I chengyu si sono formati nei secoli secondo lo sviluppo della società, raffinandosi con l’esperienza attraverso un processo di ripetuta elaborazione. Nonostante la inevitabile evoluzione della lingua cinese nei secoli, i chengyu hanno mantenuto una straordinaria stabilità, conservando una testimonianza della antica cultura cinese.

I chengyu fanno ormai parte della lingua parlata: alcuni sono di comprensione immediata, tipo «Riparare l’ovile quando sono scappate le capre»; altri non sono chiari neanche quando si è appreso il significato di ciascun componente (di solito quattro ideogrammi, vale a dire quattro parole) e sono di difficile comprensione per chi non conosce i riferimenti sottintesi. In particolare, quei detti derivati da poesie o scritti classici, legati con favole, avvenimenti storici, tipo «tre la mattina, quattro la sera» o «dipingere il serpente aggiungendo le zampe» sono ovviamente incomprensibili se non se ne conosce l’origine.

I proverbi sono utilizzati per il loro potere evocativo, per chiarire con l’esempio o per rafforzare con l’analogia i pensieri e le idee di una persona. Di questi aforismi ricchi di allusioni se ne contano in Cina molte migliaia e sono usati spessissimo in letteratura e nella conversazione colta: ogni cinese con una buona istruzione ne conosce un gran numero a memoria.

Un aspetto originale dei chengyu, legato alla “tonalità” della lingua cinese, è la loro musicalità. Come è noto, la lingua cinese ha quattro toni: ciò vuol dire che foneticamente, per farsi intendere, non basta scandire le parole nella loro corretta pronuncia, ma bisogna farlo anche nella precisa modulazione della voce, in quanto ogni carattere cinese richiede anche un determinato tono. Una storpiatura tonale rischia l’incomprensibilità o il malinteso.

Per fare un esempio:

1. 妈 mā, primo tono (relativamente alto e continuo come quando si canta la nota "la") significa “mamma” ;
2. 麻 má, secondo tono (ascendente, come se si facesse una domanda “perché?”) significa “canapa”;
3. 马 mǎ, terzo tono (prima discendente, poi ascendente,come nel «noo» di incredulità) significa “cavallo”;
4. 骂 mà, quarto tono (discendente e breve, come un “no!” secco) significa “imprecare”

Essendo i chengyu quadrisillabi, si crea una notevole varietà di toni nella dizione e questo rende particolarmente piacevole la lettura.

In Cina si è sentito la necessità di catalogare i chengyu in appositi dizionari che ne spiegano il significato e l’origine risalendo ai testi antichi da dove essi sono comparsi: nel Dictionary of chinese Idiomatic phrases , edizione sino-inglese di Hong Kong ne sono state raccolte ben 30.000!

E per fare un bell’esempio, commentiamone uno:

辗      转     反 侧

zhǎn zhuǎn fǎn cè, che significa: «girarsi e rigirarsi»

Ed ora una piccola provocazione: se volete cimentarvi nella musicalità del chengyu, la pronuncia approssimativa è la seguente (il volume della voce sia proporzionale all’altezza dei caratteri)



Questo chengyu, è un verso di una poesia intitolata «I Cormorani» parte di uno dei “classici” cinesi, il Libro delle Odi, che raccoglie le opere scritte dall’inizio della dinastia Zhou (circa 1122-770 a.C.) alla metà dell’ epoca delle “Primavere e Autunni” (770-476 a.C.). Questa opera, oltre ad essere una preziosa documentazione della storia antica, ha esercitato una profonda influenza nell’evolversi della letteratura cinese. ma vediamo cosa dice la poesia:

Cantano i cormorani in coro
sull’isolotto, nel fiume.
la fanciulla serena e graziosa
accende amore nel cuore dl gentiluomo.

Lunghe e corte, le alghe
si piegano a destra e a sinistra.
Alla fanciulla serena e graziosa
corro dietro giorno e notte.

Le corro dietro ma invano
e di giorno e di notte la penso.
Lunghi i pensieri, lunga la notte
mi giro e rigiro nell’insonne giaciglio.
....

Qui l’innamorato non corrisposto si tormenta tutta la notte pensando alla sua amata senza poter prendere sonno girandosi e rigirandosi nel letto: ecco una buona metafora della situazione in cui una persona, gravata da desideri irraggiungibili, perde la serenità.

Arrivederci al prossimo chengyu!

lunedì 20 giugno 2011

Ujöp, il missionario ladino che amò la Cina più delle sue montagne

« Io amo la Cina e i cinesi;
voglio morire in mezzo a loro,
e tra loro essere sepolto »
Josef Freinademetz


Nel libro dei battesimi della parrocchia di Oies, un piccolo maso di cinque case della Val Badia, nell'Alto Adige, si trovano altre dizioni di questo cognome: «Freina de mezz», «Freina d’Mezz» «Frenademetz», etc. Il nome stesso significherebbe “In mezzo ad una frana”. L’accento poggia sulla prima sillaba: Fréi-nademetz.
Figlio dei contadini Giovanni Mattia Freinademetz e Anna Maria Algrang. Josef Freinademetz è nato il 15 aprile 1852 col nome di Giuseppe, ladino “Ujöp”, come quarto di tredici figli, dei quali quattro erano morti subito dopo il parto. Il padre non era ricco: per il lavoro dei campi e per i trasporti c'era un cavallo, inoltre una mezza dozzina di bovini, qualche maiale da macellare o da vendere. Si faceva uso di poca carne e di solito solamente la domenica. Per il resto ci si nutriva di minestre di farina, di orzo e si faceva molto uso di fagioli e di patate. Infatti la magra terra a quell'altitudine e con quel clima non produceva altro. La vita quotidiana della famiglia era profondamente radicata nella tradizione cattolica. La giornata cominciava con l'Angelus e terminava con la recita del rosario davanti all'altare domestico. In questa atmosfera di fede visse Ujöp Freinademetz nella casa paterna. Fede viva e amore cristiano verso il prossimo, imparati e vissuti nella casa paterna, sono stati una forte base per la sua futura vocazione.

Completati gli studi nel seminario di Bressanone, il 25 luglio 1875 è stato ordinato Sacerdote, e come primo servizio pastorale fu nominato Cooperatore nella parrocchia di San Martino in Badia. Durante gli studi e la sua permanenza a San Martino, Freinademetz maturò la scelta di diventare missionario. Con l'assenso del vescovo e della famiglia nell'agosto 1878 si trasferì a Steyl, nei Paesi Bassi presso la sede centrale della Società del Verbo Divino, fondata pochi anni prima da Arnold Janssen.

Il 2 marzo 1879 Josef, che aveva compiuto da poco 27 anni, ricevette la croce missionaria e insieme a Padre Giovanni Battista Anzer, partì alla volta della Cina. nel suo diario scrive:

«Non posso esprimere in parole quali profondi sentimenti riempivano il mio cuore, quando il Rev.mo Rettore ci ha impartito la sua ultima benedizione, quando il Nunzio Papale ci ha appeso al collo la croce missionaria, quando noi, chiamati dal nostro Salvatore, abbiamo offerto le nostre persone come suoi servi, quando abbiamo stretto la mano dei nostri confratelli per l’ultimo saluto. So che il 2 marzo 1879 si è talmente impresso nei miei ricordi che da considerarlo come uno dei più bei giorni della mia vita che mai si cancellerà dalla mia memoria finché la morte non chiuderà i miei occhi.»

Ma seguiamo Josef e i suoi pensieri nel suo lungo viaggio dall’Olanda alla Cina. Scrive nel suo diario:

«Con grande velocità la locomotiva a vapore ci porta attraverso sterminate pianure … e giunti a Wurzburg, città fortificata, abbiamo dovuto separarci e continuare da soli il viaggio, ognuno verso il proprio paese natale per poi ritrovarsi, dopo otto giorni, a Roma ….Nel frattempo non mi trovavo molto lontano dalla mia casa. Piene di amore mi guardavano le argentate montagne tirolesi. E il mio cuore capiva l’effetto giocoso che provocavano. Risuonava in me un’eco che nessuno può sentire se non il figlio delle montagne. Dopo che mi ero congedato a Innsbruck da alcuni cari amici, sono giunto, viaggiando di notte a Bressanone. Il congedo da Bressanone, dalla mia seconda patria e da molti dei miei più cari amici è stato veramente difficile.»

Struggente, nei suoi ricordo è il congedo dalla la famiglia e dai suoi luoghi di origine:

«Ora avanti “nel paese, culla dei miei antenati”. In un’ora e mezza mi sono venuti incontro il mio buon e vecchio papà e la mia cara mamma. Potevo leggere facilmente nei loro occhi quanto era difficile questo momento; ancora più difficile è stato il momento quando hanno saputo che potevo rimanere con loro solo due giorni. Alcuni incontri, visite alla scuola, alcune brevi parole alla comunità riunita dal Parroco ecc; e la sera del secondo giorno era purtroppo giunta. La scena del congedo nella casa paterna non la voglio descrivere. Ognuno se la può immaginare; solo non dimentico che anche il missionario è come qualsiasi altro uomo che ha un cuore sensibile in petto, che umanamente pensa e prova i sentimenti umani. E inoltre vede un buon e vecchio padre, una gentile e amabile mamma, otto cari fratelli e sorelle affranti dal dolore, in lacrime … Basta! Ho chiesto la benedizione paterna, ho dato ai miei parenti la mia benedizione sacerdotale, all’altare abbiamo sigillato ancora una volta la nostra santa alleanza, e via dalla mia cara Badia, forse per non rivederla mai più.»

Da Oies a Roma.

«Il Tirolo con le mie amate montagne, lentamente sparisce davanti ai miei occhi. Con grande velocità siamo passati da Verona, Bologna, Imola, Rimini, Foligno. Il 12 marzo finalmente alla ore 7 di mattina la Città Santa con tutto il suo splendore stava dinnanzi ai miei occhi estasiati. Mi è stato concesso di rimanere a Roma solo per due giorni; Ma quello che soprattutto avevo cercato a Roma lo avevo raggiunto. Ho potuto inginocchiarmi ai piedi del Vicario di Cristo , del Santo Padre Leone XIII. Il santo Padre ha impartito la sua benedizione su di me, sui miei parenti, sulla Casa Missionaria e tanti cari amici;… Il giovedì, 13 alle ore 10 di sera si è sentito già: “Salire!”: Roma, Foligno, Ancona per lasciare il giorno seguente l’Europa e proseguire il nostro viaggio in mare.»

Da Ancona ad Alessandria

«La mattina del 15 marzo comincia a diventare chiara. Il mio cuore è calmo e composto e indifferente; incomincia oggi il difficile viaggio di 36 giorni in mare. Noi due ci raccomandiamo, in ginocchio, ancora una volta alla Madre di Dio e all’Angelo Custode e ci portiamo al porto dove ci aspetta una grande nave a vapore inglese. Verso le 6 ci viene incontro, e punta solennemente verso il mare aperto, passato in mezzo a una quantità di vele altre navi a vapore. Non ci troviamo più in terra europea. Pensieri strani passano per la mia mente: Patri, amici e genitori lasciati! … e ora dovevo ricominciare in un paese straniero, conquistare nuovi amici, imparare nuove lingue, e dappertutto incominciare tutto daccapo! Quanto più piccole sono diventate le rive che separano e io guardavo indietro, con grande nostalgia, e con timore verso il futuro, tanto più opprimeva il pensiero: Ma che cosa hai fatto! Ma allora: Che cosa vuoi fare? Tu vuoi salvare anime per il cielo! Salvare! E il mio cuore ferito era guarito … Questi e altri simili erano i miei sentimenti che sorgevano nel mio cuore durante il viaggio di tre giorni da Brindisi ad Alessandria, e anche fisicamente non mi sentivo molto bene a causa delle oscillazioni della nave … Dopo aver festeggiato, ancora in mezzo al mare, la festa del mio patrono San Giuseppe, siamo sbarcati ad Alessandria all’alba del giorno 20
...

Ad Alessandria mi sono trovato davanti a un nuovo mondo. Forse non esiste altra città che si presenti così variopinta e ricca di novità come Alessandria. Appena la nostra nave è giunta al porto è stata circondata da una grande folla di impertinenti gondolieri, … Messo piede in terra ferma e controllati i nostri passaporti … siamo andati a visitare la città con la guida di un Padre Francescano … Dappertutto sulle piazze e sulle strade grande movimento come ci fosse perenne mercato. Vengono offerti ai clienti viveri, vestiti; Il cocchiere offre a servizio degli ospiti, il veloce mezzo di trasporto o la carrozza trainata da un povero asino con il dorso tutto insanguinato. E si vedono rappresentate tutte le nazioni, costumi e colori ecc ….»


Suez - Aden – Ceylon

«Verso le 6:30 di sera abbiamo lasciato Alessandria e siamo andati, con il treno, a Suez dove siamo arrivati già la mattina seguente … Appena giunti a Suez, abbiamo avuto la gioia di incontrare due compagni di viaggio, due missionari Francescani: P. Zeno dal Tirolo e P. Agostino dall’Olanda. Sulla nuova nave a vapore la situazione si presentava essenzialmente differente … Il maestoso rumoreggiare del mare è la nostra modesta musica spirituale, che alle orecchie del Creatore risuona certamente melodiosa. Stiamo viaggiando tra Asia e Africa verso il Mar Rosso. Qui il mare non presenta nulla di interessante. Le due coste a oriente e occidente, di solito, non si possono vedere a occhio nudo, o si scorgono come colossi rocciosi completamente brulli o come pianure di sabbia senza vegetazione. Il caldo si fa sentire già molto forte
...
La nave continua il suo viaggio calma su una superficie del mare praticamente tranquilla, per cui ci sentivamo come fossimo su terra ferma. Solo l’ultimo giorno, il 25., il mare era agitato come non l’avevamo mai visto,… Nella notte del 26 siamo dovuti correre, ancora assonnati, verso il porto, un pittoresco Ponto lontano circa un’ora e mezza dalla grande città Aden….»


Penang – Singapore – Hong Kong

«Siamo saliti di nuovo a bordo. La domenica del 6 aprile vengono tolte le ancore; il suono noioso del viaggio marino è ricominciato e, con il viaggio si è presentato anche un inseparabile compagno: il solito mal di mare. Il desiderio di veder sorgere presto il sole di Hongkong si faceva sentire in me sempre più. A Ceylon abbiamo dovuto cambiare la nostra nave spaziosa con una più modesta e Anzer ed io abbiamo dovuto essere stipati in una piccola stanza assieme a un Giudeo. Per poter celebrare la S.Messa, veniva allestita, dalle 6-8 ogni mattina, una cabina cosi povera e stretta da soffrire un caldo terribile durante la celebrazione, in un fumo soffocante e continuamente gettati di qua e di là dai sobbalzi della nave… Venerdì Santo, alle ore 12 la nave era di nuovo in viaggio verso l’equatore senza preoccuparsi del grande sudare e sospirare dei propri inquilini. Già fin dalla partenza da Steyl abbiamo accolto di cuore che, per questa volta, non sarebbe giunta al nostro cuore neanche un’esile eco delle migliaia di gioiosi Alleluia di Pasqua. Tanto più grande è stato il nostro giubilo quando il mattino della festa di Pasqua abbiamo raggiunto la punta meridionale di Malakka e siamo giunti al porto di Singapore
...
Il giorno seguente siamo entrati nel mare cinese per non fare altre tappe fino a raggiungere il nostro luogo di destinazione. Il mare cinese, nell’ambiente marinaro, ha una cattiva fama. Si racconta di ostilità, ribellioni e violenze. Infatti, anche se non abbiamo avuto nessuna tempesta, l’ondeggiare della nave era però così forte che mi ricordavano le scene delle prime ore del mio primo viaggio via mare e che è durato più o meno durante tutta la settimana. Il tempo era quasi sempre bello e gradevole; anche il caldo era sopportabile quanto più andavamo verso il nord. E così giorno dopo giorno il tempo era passato; Nessun’altra nave abbiamo potuto scorgere durante il lungo tragitto e il nostro sguardo non ha potuto vedere nessun’isola all’orizzonte; Acqua e sempre acqua. Finalmente è giunta l’ora della liberazione. Quando, il 20 aprile, appena alzati dal letto, si poteva scorgere la terra e, in poco tempo, abbiamo raggiunto il porto di Hongkong. Recitando il Te Deum in silenzio, col cuore pieno di gioia, siamo andati alla casa del Vescovo passando per le strade strette di una città orientale. La nostra meta era raggiunta. Come protegge il filo d’erba dalla violenta furia del vento, così Egli ha certamente condotto la nostra nave attraverso innumerevoli pericoli del grande oceano. Il suo occhio paterno ha vegliato su di noi giorno e notte; La sua benedizione paterna si è poggiata su di noi durante tutto il viaggio. Lodato sia il Signore per ogni cosa!.»


Dopo un viaggio di ben 5 settimane, i due arrivarono dunque ad Hong Kong: ben poco, tutto sommato, rispetto ai viaggi dei loro illustri predecessori: frate Giovanni da Montecorvino nel 1294 aveva impiegato ben cinque anni a fare circa lo stesso percorso!

( vedi: Frate Giovanni da Montecorvino, il primo vescovo di Pechino )

A Hong Kong i due sacerdoti prepararono la loro missione per i successivi 2 anni. La missione riguardava la zona dello Shandong del Sud, una provincia cinese del nord-est, con oltre 12 milioni di abitanti ed appena un centinaio di fedeli battezzati.

La vita e l’attività di Giuseppe Freinademetz coincide con “l’età dell’oro“ del colonialismo europeo. La Cina si vide obbligata ad aprire le sue porte all’Occidente dopo che le truppe britanniche uscirono vincitrici nella “guerra dell’oppio“ (1840-42). L’imperatore dovette firmare un trattato umiliante che permetteva ai mercanti europei di vendere oppio in tutto il paese e garantiva ai missionari, posti sotto il protettorato del potere coloniale, la libertà di diffondere la fede cristiana. Mentre il Portogallo manteneva la sua colonia di Macao, la Francia si assicurava posizioni di privilegio a Shanghai e in altri porti. Poco più tardi anche la Germania entrerà in questo gioco di pressioni straniere. In questo contesto politico e religiosamente ambiguo, e alla lunga funesto per la Chiesa, ebbe inizio il quarto tentativo di impiantare il cristianesimo in Cina.


Il primo tentativo ebbe luogo nel VII° e VIII° secolo. Fu la cosiddetta missione nestoriana che durò più o meno 200 anni.( vedi: Un prete di nome Adamo alla corte dei Tang)
Il secondo tentativo lo portarono avanti i francescani e i domenicani nel 13° e 14° secolo. Dopo circa 150 anni di promettente lavoro, la missione terminò come un torrente nel deserto.
(vedi: Mission impossible: il papa Innocenzo IV chiede a frate Giovanni di convertire la Cina)

Il terzo capitolo missionario della Cina fu aperto nel XVI° secolo con l’arrivo dei galeoni spagnoli e portoghesi. Fu una tappa luminosa, marcata dalla figure di Matteo Ricci e di un altro trentino Martino Martini. Ma anche questa volta ha Chiesa finì nella persecuzione e nel silenzio di quasi tutto il XVIII° secolo e parte del XIX°.

( vedi: Matteo Ricci: un genio più noto in Cina che da noi)

(vedi: Il più grande cartografo della Cina era un trentino, tal Martino Martini)

All’epoca di Giuseppe Freinademetz l’attività missionaria era coinvolta in una visione colonialista. La missione non aveva tracciato una linea chiara di distinzione tra la cultura europea e il messaggio evangelico. I missionari partivano per andare a insegnare agli ignoranti, a illuminare i popoli immersi nelle tenebre dell’errore e sottomessi al potere del demonio. L’obiettivo fondamentale consisteva nel predicare il Vangelo e battezzare per salvare anime; erano convinti inoltre, i missionari, di essere portatori di civiltà per gente in ritardo sui tempi. Risulterebbe pertanto anacronistico pretendere di vedere nella vita e nelle attività di Giuseppe Freinademetz quella visione e quel processo che oggi chiamiamo inculturazione. Nella sua epoca non aveva ancora avuto luogo una riflessione missiologica sui contenuti della fede e sulla figura di chi va ad annunciare il vangelo; tanto meno era stata presa in seria considerazione il patrimonio di storia e di cultura dei popoli ai quali si dirigeva l’opera di evangelizzazione. Tutto questo sarebbe venuto più tardi, con il declino dell’epoca coloniale e soprattutto con “l’aggiornamento“ del Concilio Vaticano II e la “riabilitazione” della figura e dell’opera di padre Matteo Ricci.

Tuttavia, quello che avvenne in Giuseppe Freinademetz fu un processo di profonda trasformazione interiore proprio nella direzione degli ideali richiamati dal concetto di inculturazione. Con ragione si può affermare che con il passare degli anni il tirolese degli inizi andò sparendo, per far posto a un Giuseppe Freinademetz genuinamente cinese. Di questo processo Giuseppe fu soggetto attivo, sempre aperto e generoso a mettersi al passo con l’azione di Dio nella sua vita, pronto a seguire gli stimoli che gli venivano dalla gente e dalle circostanze.

L’ambientamento nella nuova patria e la comprensione della gente fu per Giuseppe più ardua del previsto. Dalle lettere dei primi due anni si ricava una valutazione completamente negativa del popolo cinese e ancor più negativa delle loro credenze. Le pagode sono per lui templi del demonio e le pratiche religiose del popolo cinese superstizioni che devono essere superate per opera e in grazia della fede cristiana.

«Per noi europei - scriveva - i cinesi hanno ben poco di attraente, e, se non fossero animati da ben altre motivazioni, i missionari se ne ripartirebbero con la prima nave verso l‘Europa. Il missionario rimane sempre uno straniero. Il cinese ha un alto concetto di se stesso, è orgoglioso della sua razza e sente di far parte di una grande nazione. Non si inchina davanti allo straniero; tutt’al più lo disprezza. Per lui gli europei sono i “nasi lunghi“, i “diavoli“ che vengono dall’estero. L’adulto cinese ci deride in pubblico, i bambini ci gridano alle spalle. Sembra che perfino i cani provino un gusto particolare a rincorrerci e ad abbaiarci contro. Un anziano missionario mi disse: “Il missionario è odiato da molti, tollerato da pochi, amato da nessuno”».

Un’altra volta scrisse:

«Il carattere cinese ha per noi Europei poco di attraente... Il Cinese non è stato dotato dal Creatore con gli stessi talenti degli Europei, e al giovane missionario costa fatica non curarsi della loro finzione, della loro spietatezza e indifferenza. »

Uomo del suo tempo, certo, ma anche uomo che superò i pregiudizi della sua epoca, fino ad arrivare ad essere un modello di missionario per ogni epoca. La sua trasformazione interiore si produsse gradualmente, a partire dall’inserimento nel lavoro missionario concreto nello Shandong.

E’ ammirevole come Josef riuscì a uscire da questa mentalità piena di pregiudizi. Con costanza e cocciutaggine incominciò a studiare “il modo di pensare dei Cinesi, i costumi e le usanze cinesi, il loro carattere e qualità e chiamò questo “la trasformazione dell’uomo interiore” e intese, con questo, la sua propria conversione: il missionario, che prende congedo dalle sue proprie concezioni e si rivolge agli uomini prendendoli sul serio nella loro cultura, lingua, nel loro modo di pensare e di sentire. Ed era cosciente che questo:

«non avverrà in un giorno e nemmeno in un anno e non senza inevitabili e dolorose operazioni.»

Una delle qualità eminenti di Giuseppe fu la sua estrema bontà. Il suo vescovo, mons. Henninghaus, che visse con Giuseppe un’amicizia lunga vent’anni, scrisse:

«Possedeva una bontà che mai veniva meno e conquistava i cuori, quella pazienza inesauribile e quella carità che lo portava a dimenticare se stesso. I cristiani, specialmente i neofiti e la gente semplice gli erano affezionati come i bambini al nonno. Appena usciva da qualche funzione sacra, subito un gruppo di cristiani stringeva intorno a lui.»

Fu proprio questo amore alla gente che gli permise di cambiare opinione circa il popolo cinese. Affermava che non poteva essere un buon missionario chi non nutriva un profondo amore alla gente. Già nel 1884 scrive in una delle sue lettere:

«I cinesi sono un popolo intelligente, di buone capacità, anche i semplici contadini sanno esprimersi come fossero dottori.... in molte cose superano gli europei.»

Qualche anno più tardi scriverà:

«I cinesi sono un popolo meraviglioso che possiede eccellenti qualità e virtù.»

e ancora:

«Essere missionario in China è un onore che non cangerei colla corona d’oro dell’imperatore d’Austria»

(A quell’epoca il Tirolo, sua terra natale, apparteneva alla monarchia austro-ungarica).

Josef Freinademetz si identificava così tanto con i Cinesi, da assumerne appieno lo stile di vita nell'abitazione, nel vestire, nella pettinatura... Si diede anche un nome cinese, 福神甫 Fu Shenfu (sacerdote della felicità). I confratelli missionari sapevano che non tollerava giudizi negativi sui cinesi. Il suo vescovo sottolinea:

«Era arrivato ad essere cinese in tal misura che non voleva ascoltare niente di male che riguardasse i cinesi, proprio come una madre che non sopporta che si parli male dei figli.»

La sua “inculturazione” nel mondo cinese si intensificò a tal punto nel corso degli anni, che i suoi confratelli sollecitarono il Superiore Arnoldo Janssen a togliere questo uomo dalla Cina perché, con una tale mentalità, non si poteva più esercitare la missione. E’ importante notare, a mio giudizio, la profonda differenza tra il metodo di inculturazione adottato da Matteo Ricci, basato su una integrazione con la “intelligentia” dei letterati, basata sul principio della diffusione “dall’alto” della parola evangelica e quello di Freinademetz, molto più umile, basato sull’integrazione con la “gente comune” e quindi basata su un concetto di penetrazione “dal basso”. (vedi: Ricci: come fare diventare cinese anche Dio)
E proprio in questo aspetto della sua personalità che fu riconosciuta la sua santità, il non essersi fermato alle prime impressioni e pregiudizi, ma essersi fidato delle persone, così da percorrere egli stesso un cammino di conversione, egli che era andato in Cina per convertire i pagani del luogo. Come Paolo, l'apostolo delle genti, egli è davvero divenuto tutto in tutti.

Furono anni duri, segnati da viaggi lunghi e difficili, assalti di briganti e un lavoro arduo per formare le prime comunità cristiane. Appena riusciva a costituire una comunità che potesse camminare da sola, arrivava l'ordine del Vescovo di lasciare tutto e ricominciare in un altro luogo.

Josef ben presto comprese l'importanza dei laici come catechisti per la prima evangelizzazione. Alla loro formazione dedicò molti sforzi e per loro preparò un manuale catechistico in lingua cinese. Allo stesso tempo insieme al confratello Anzer, che nel frattempo era diventato Vescovo, si impegnò nella preparazione spirituale e formazione permanente dei sacerdoti cinesi e degli altri missionari.

Esistevano nello Shandong meridionale solamente poche comunità cristiane non fondate o sostenute da Giuseppe Freinademetz. Egli le visitava continuamente e per raggiungere le comunità lontane, doveva percorrere centinaia di chilometri. Per questi viaggi usava un cavallo o un asino. Un cristiano vecchio e mezzo cieco era il suo fedele accompagnatore. Il necessario l’aveva sempre con sé: i paramenti per la s. Messa, le lenzuola, i vestiti, ecc.

Nonostante i suoi viaggi e i molti suoi impegni, Freinademetz si prendeva sempre il tempo di comunicare in scritto al Vescovo le sue attività, testi da tradurre in cinese e la redazione di fascicoli, tra l’altro un riassunto della dottrina cattolica, l’allora usuale preghiere della Messa, regole per i responsabili delle comunità cristiane e per i seminaristi, riflessioni sul sacrificio eucaristico e sulla preghiera del breviario.

Nel 1898 il continuo lavoro e le molte privazioni presentarono il conto. Ammalato alla laringe e con un principio di tisi, dietro insistenza del Vescovo e dei confratelli, dovette trascorrere un periodo in Giappone nella speranza di ricuperare la salute. Ritornò in Cina rimesso un po’ in forze, ma non guarito. Quando nel 1907 il Vescovo dovette fare un viaggio in Europa, Padre Freinademetz dovette assumere l'amministrazione della diocesi. Durante questo periodo scoppiò un'epidemia di tifo. Giuseppe, come buon pastore, prestò la sua instancabile assistenza, fino a quando lui stesso si ammalò. Ritornò immediatamente a Taikia, (l’attuale Dai Jia Zuang), sede della diocesi, dove morì il 28 gennaio 1908. Venne sepolto sotto la dodicesima stazione della Via Crucis e la sua tomba presto divenne punto di riferimento e pellegrinaggio dei cristiani.

Il suo servizio missionario, durato quasi 29 anni fu un servizio di totale dedizione al popolo cinese: non ritornò mai in Europa e profetica fu una sua frase:

«Io amo la Cina e la sua gente e vorrei morire mille volte per loro... Voglio restare cinese anche in Paradiso.»

Padre Freinademetz seppe scoprire e amare profondamente la grandezza della cultura del popolo al quale era stato inviato. Dedicò la sua vita ad annunciare il vangelo, messaggio dell'amore di Dio per l'umanità, e a incarnare questo amore nella comunione delle comunità cristiane cinesi. Animò queste comunità ad aprirsi alla solidarietà con il resto del popolo cinese. Entusiasmò molti cinesi affinché si facessero missionari tra la propria gente, come catechisti, religiosi, religiose e sacerdoti. Tutta la sua vita fu espressione di quello che era un suo slogan:

«La lingua che tutti comprendono è l'amore».

Papa Paolo VI lo proclamò beato nel 1975, e il 5 ottobre 2003 padre Josef Freinademetz è stato proclamato santo da papa Giovanni paolo II. La sua casa natale di Oies oggi è diventata una meta per molti pellegrini ed ospita diverse reliquie, indumenti della sua Cina e alcune sue lettere. Il 5 Agosto 2008 anche Papa Benedetto XVI si è recato da Bressanone a Oies in pellegrinaggio, da dove ha lanciato un messaggio di apertura al Vangelo alla Cina.

Riferimenti bibliografici


http://www.freinademetz.it/index.php?page_id=1050&lang_id=1

http://www.ladinia.it/panorama/panorama.php?id=107

martedì 14 giugno 2011

Il concetto di "persona" nella cultura orientale

Secondo l’uso corrente «persona» designa la realtà umana, il singolo individuo, nella sua interezza e concretezza: è tutto l’essere dell’uomo nella sua individualità che si vuol esprimere con questo nome. Come spiega lo stesso S. Tommaso il termine proviene da personare, che significa "far risonare", "proclamare ad alta voce":

"Sumptum est nomen personae a personando eo quod in tragoediis et comediis recitatores sibi ponebant quandam larvam ad repraesentandum illum, cuius gesta narrabant decantando”

(il nome persona è stato tratto da personare perché nelle tragedie e nelle commedie gli attori si mettevano una maschera per rappresentare colui del quale, cantando, narravano le gesta)

Storicamente la parola «persona» segna la linea di demarcazione tra la cultura pagana e la cultura cristiana. Fino all’avvento del cristianesimo non esisteva né in greco né in latino una parola per esprimere il concetto di persona, perché nella cultura classica tale concetto non esisteva: essa non riconosceva valore assoluto all’individuo in quanto tale, e faceva dipendere il suo valore essenzialmente dal ceto, dal censo, dalla razza.

La singolarità della persona, unica e irripetibile e, di conseguenza, la sostanziale eguaglianza in dignità e nobiltà di ogni esponente della specie umana, il suo valore assoluto, è una verità portata, affermata e diffusa dal cristianesimo, e fu una verità carica di un "potere sovversivo" come poche altre nella storia: man mano che essa riuscì a farsi strada e a penetrare nella cultura pagana, la trasformò profondamente, sostanzialmente, dando origine a una nuova cultura e a una nuova società: la cultura e la società che prenderanno forma nella respublica christiana del medioevo.

Nel cristianesimo il concetto di persona è diventato argomento di profonda meditazione filosofica e teologica. L’occasione di tale approfondimento la fornirono le dispute teologiche intorno ai grandi misteri della Trinità e della Incarnazione, alla cui soluzione contribuì in maniera decisiva la formulazione precisa del concetto di persona. Il primo esame approfondito di tale concetto fu compiuto da Agostino nel De Trinitate. L’obiettivo che egli persegue è quello di reperire un termine che si possa applicare distintamente al Padre, al Figlio e allo Spirito, senza incorrere da una parte nel pericolo di far di loro tre divinità e, dall’altra, nel pericolo di dissolvere la loro individualità. Agostino fa vedere che i termini "essenza e "sostanza" non possiedono questa duplice virtù, in quanto si riferiscono ad aspetti comuni a tutti e tre i membri della Trinità. Essa compete invece al termine greco “hypostasis” e al suo equivalente latino "persona", il quale non significa una specie, ma qualcosa di singolare e di individuale. Analogicamente, oltre che a Dio, questo termine si applica anche all’uomo: "Singulus quisque homo.. una persona est" (ibid. XV, q. 7, a. 11). Pertanto, per Agostino persona significa il singolo, l’individuo. Ciò attesta che nel secolo IV d. C. la parola persona aveva già acquisito un significato profondamente diverso da quello che aveva avuto nella latinità classica: non designa più una maschera ma un uomo, un individuo della specie umana.

Il merito di avere elaborato una definizione adeguata del concetto di persona spetta a Severino Boezio. In uno dei suoi opuscoli teologici egli scrive: “La persona è una sostanza individuale di natura ragionevole”. Dalla definizione boeziana risulta che persona non dice semplicemente individualità singola, né semplicemente natura, né semplicemente sostanza. Ma neppure l’unione di individualità, natura e sostanza fa ancora la persona; questi elementi appartengono anche a un sasso o a un gatto, che non sono persone. Per definire adeguatamente la persona occorre aggiungere ai tre elementi precedenti la differenza specifica che distingue gli uomini dagli animali, la quale consiste nella razionalità. Così si ottiene esattamente quanto ha scritto Boezio: rationalis naturae individua substantia.

Dopo questa doverosa introduzione al concetto di «persona» nel mondo occidentale, proviamo a vedere come questo concetto si è sviluppato nel mondo orientale. Lungi dal pensare che il pensiero orientale sia migliore del nostro, va tuttavia riconosciuto che nel pensiero cinese ed indiano è possibile riscontrare elementi che indicano possibilità umane non compiute dall’Occidente e che quindi possono fornire elementi di integrazione ed ampliamento del nostro modo di pensare.

Nell'induismo non esiste il concetto di Dio, cioè di un’entità personale, soprannaturale, onnipotente, sempre esistita, creatrice etc. Per l’induismo, al posto di Dio esiste una sorta di “energia” cosmica, impersonale, inconoscibile (Brahman), dalla quale si forma (per emanazione) tutto l’universo e gli uomini. Per questo non esiste, in questa concezione, il concetto di «persona», come noi lo intendiamo. Per l’induismo ognuno di noi è un’apparenza, solo un'emanazione dell’ «energia» primordiale … esistono numerosi dei, ma anche i più importanti e potenti sono emanazioni, per cui destinati a morire o meglio a fondersi nel primordiale Brahman, l'unica vera realtà. Il paradiso induista è quindi un tornare in questa «energia», non è un vivere da persona umana in una felice dimensione (come pensano le religioni monoteiste). Per l’induismo il paradiso è uno sciogliersi, come fa il fiume nel mare, in questa realtà impersonale, incosciente, sconosciuta, primordiale; non esiste quindi un rapporto vero di amore e gioia fra l'uomo e la divinità, e fra gli uomini...tutti i principi vitali, cioè gli atman (da non intendersi però come “anime”, dotate cioè di piena ed evidente autocoscienza e sentimento) confluiscono nel Brahman, perché erano di esso emanazione, da esso provenivano, esso erano.

Se guardiamo al buddhismo, vediamo che esso non si pone proprio il problema dell’esistenza di Dio: da alcuni studiosi è considerato - più che una religione - una filosofia di vita per raggiungere il Nirvana. Il Nirvana, però, non è una sorta di dimensione di estrema felicità, dove si vive con le persone care per sempre etc., ma anche qui è una dimensione dove l’entità umana viene annullata, una dimensione di estrema quiete, o meglio di azzeramento, di estinzione, dove non esiste più il dolore, ma anche dove non esiste più l'amore, la gioia, l'autocoscienza, i ricordi, la conoscenza ... in sostanza dove non esiste più l'essere umano. Il buddhismo puro insegna che sentirsi «persone» (dotate cioè di propria volontà, autocoscienza, individualità ecc.) è in realtà solamente un inganno, un inganno che conduce, insieme alle varie dimensioni umane, al desiderio....quindi alla sofferenza. Lo stesso amore, anche nei casi dove viene (anzi sembrerebbe venire) elevato o sottolineato come elemento d'estremo valore, in realtà è sempre strumentale, cioè solamente utile a raggiungere quella dimensione di estinzione dove non esiste l'individualità umana, né l'amore.

Ed ora passiamo alla Cina: Il posto occupato dalla filosofia nella civiltà cinese è paragonabile a quello tenuto dalla religione nelle altre civiltà: si è soliti dire che in Cina esistono tre religioni: confucianesimo, taoismo e buddhismo. E’ vero che in tutte e tre le direzioni si sono sviluppate degli indirizzi di carattere più propriamente religioso (in senso formale ed organizzato), tuttavia bisogna tenere presente che la civiltà cinese ha il suo fondamento spirituale nell’etica e non nella religione. I cinesi non si occuparono tanto di religione perché si dedicarono alla filosofia. Secondo la tradizione cinese, la funzione della filosofia non è di aumentare la conoscenza positiva ma di elevare lo spirito, cioè tensione verso quanto sta oltre il mondo presente e attuale.

Il tema centrale della speculazione cinese è il seguente: esistono uomini di vari tipi e condizioni (politici, artisti, scienziati) e per ciascuno esiste la più alta forma di sviluppo della quale il tipo è capace. Ma quale è la più alta forma di sviluppo di cui un uomo «come uomo» (cioè come persona) è capace? Secondo i filosofi cinesi è nientemeno che quella del «saggio» e l’ideale di un saggio è l’identificazione dell’individuo con l’universo.

Ma per raggiungere questo ideale si deve necessariamente abbandonare la società e persino negare la vita? Secondo alcuni filosofi ciò è necessario: il Buddha disse che la vita stessa è la radice e la sorgente della miseria della vita; alcuni taoisti sostennero che la vita è una escrescenza, un tumore, da cui solo la morte ci libera. Queste concezioni implicano l’idea dell’abbandono del mondo (filosofie dell’altro mondo). Le varie scuole del misticismo orientale, sebbene differiscano tra loro in molti punti particolari, sottolineano tutte l’unità fondamentale dell’universo che è la caratteristica principale del loro insegnamento: l’aspirazione più elevata dei loro seguaci – siano essi indù, buddhisti, o taoisti – è quella di diventare pienamente consapevoli dell’ unità e della interconnessione reciproca di tutte le cose, di trascendere la nozione di sé come individuo singolo e di identificarsi con la realtà ultima. Il raggiungimento di questa consapevolezza, - chiamata «illuminazione» non solo è un atto intellettuale ma una esperienza che coinvolge l’intera persona ed è fondamentalmente di natura religiosa.

Il confucianesimo, invece, è la giustificazione razionale e l’espressione teorica del sistema sociale cinese dell’epoca. Il confucianesimo, in quanto filosofia della organizzazione sociale e quindi della vita quotidiana, pone l’accento sulle responsabilità sociali dell’ uomo. La loro filosofia parla solo di valori morali e non vuole entrare nella sfera del meta-morale (filosofie di questo mondo).

Queste due correnti della filosofia cinese corrispondono più o meno al classicismo ed al romanticismo della tradizione occidentale. Il confucianesimo poiché si muove «entro i limiti della società» appare più di questo mondo del taoismo. Il taoismo, poiché si muove «al di là dei limiti della società» appare più ultramondano; negli aspetti religiosi e magici del taoismo si può infatti riscontrare la diretta influenza delle pratiche sciamaniche.

In realtà questa distinzione è solo strumentale: la filosofia cinese è di questo mondo ed insieme ultramondana. Le due correnti di pensiero, benché rivali, si completavano reciprocamente: è difficile, di fatto, fare una separazione netta tra loro: in ogni pensatore infatti, si realizza una certa compenetrazione dei due modi di vedere la realtà.

Una delle differenze più grandi tra oriente e occidente è la visione morale: la filosofia greca e la religione giudaico-cristiana sono stati i due capisaldi della tradizione occidentale: la prima ha operato inaugurando una logica disgiuntiva che ha separato il mondo del Cielo, sede d'ogni valore, da quello della Terra, dove la materia è causa d'ogni involuzione e impedimento; la seconda si è inserita con i propri dogmi creando un dualismo cosmico che ha contrapposto "la vita alla morte", lo "spirito alla carne", il " peccato alla redenzione". Il pensiero giudaico-cristiano è impostato sul concetto del «peccato» come distacco, separazione dal Bene. A partire dal peccato originale, tutto il senso del percorso umano è la lotta contro il Male, per l’affermazione finale del Bene.

Niente di tutto questo in Oriente: per il pensiero cinese, «bene» e «male» sono inseparabili componenti dell’esistenza (yin/yang): sarebbe quindi inconcepibile un’azione volta alla «eliminazione» di uno dei due principi. Il Santo per i cinesi non è tanto colui che lotta contro il male per il bene, quanto quello che «si astiene dagli eccessi», che vive nel «giusto mezzo», mantenendo un grande equilibrio tra le pulsioni. Un «eccesso di bene» è altrettanto dannoso di un «eccesso di male». Per Zhuang Zi, san Francesco è da evitare come  Al Capone!

«Uccidete i santi e liberate i banditi, il mondo intero ritroverà l’ordine:
morti i santi, i banditi non sorgono più».


Ma proviamo ad approfondire le idee chiave di confucianesimo e taoismo:

Nei Dialoghi per la prima volta nella storia cinese si fa sentire la voce di qualcuno che parla «in prima persona»: la parola di Confucio è, da subito incentrata sull'uomo e sua realizzazione. Tre cose risultano essenziali nel suo insegnamento: L'apprendimento, il senso di umanità e lo spirito rituale. Per lui innanzitutto c'è l'apprendimento (xue) e il ruolo centrale che Confucio vi attribuisce corrisponde alla sua intima convinzione che la natura umana sia perfettibile. Per la prima volta in una cultura aristocratica fortemente strutturata in caste e in clan si ha una integrale considerazione dell'individuo: tale atteggiamento rappresenta una sostanziale scommessa sull'uomo ispirata ad un sostanziale ottimismo. L'apprendimento, dunque, non come un procedimento intellettuale ma come esperienza di vita: l'apprendimento è una esperienza che si pratica, che si condivide con altri, che è fonte di gioia, che trova in se stessa al propria giustificazione. L'apprendimento deve condurre non tanto alla acquisizione di contenuti intellettuali «sapere cosa», quanto allo sviluppo di nuove attitudini di carattere concreto e pratico, cioè «sapere come» (oggi diremmo «know-how»)

La finalità pratica della educazione consiste nella formazione di un uomo capace di servire la comunità sul piano politico e di diventare un «uomo di valore» sul piano morale: la responsabilità dunque dei membri della élite colta è precisamente quella di governare gli altri per il loro maggior bene. In tal modo si delinea da subito il destino «politico» dell'uomo colto che, invece di tenersi in disparte per meglio assolvere ad un ruolo di coscienza critica, avverte invece la responsabilità di impegnarsi nel processo volto ad armonizzare la società.

Per Confucio l'uomo ha una sacra missione: quella di affermare e di elevare sempre più la propria umanità. Questa missione primeggia su tutti gli altri sacri doveri, compresi quelli che si riferiscono alle potenze divine o dell'aldilà.

Poiché la famiglia è percepita come una estensione dell'individuo, lo stato come una estensione della famiglia, e poiché il principe è rispetto ai suoi sudditi ciò che un padre è rispetto ai suoi figli, non vi è soluzione di continuità tra etica e politica.

Mentre Confucio si è sempre rifiutato di affrontare il tema metafisico (un po’ come Buddha) I taoisti erano convinti che esistesse una realtà ultima, soggiacente alla molteplicità delle cose e degli eventi che osserviamo: anche se ineffabile, essi chiamarono questa realtà Dao, che significa Via. Il Dao è la via, il procedere dell’universo, l’ordine della natura. Nel suo originario significato cosmico, il Dao è la realtà ultima, indefinibile, un processo dinamico in cui tutte le cose sono immerse, che produce il flusso ininterrotto dei mutamenti delle cose.

Ma il concetto di Entità Suprema nel taoismo non si identifica con un'entità «personale», un Dio giudice, padre, padrone, che osserva il mondo dall'alto e gestisce le sorti degli uomini. Al contrario l'entità suprema taoista è «energia» pura, che pervade l'intero universo (in questo troviamo qualche analogia con l’induismo). Il «Dio» del Taoismo è il Dao, la natura stessa di cui l'uomo fa parte, il ciclo perpetuo che provoca il mutare e il divenire di tutte le cose. Secondo la tipica circolarità del pensiero orientale, tutto ciò che “esiste” (l’universo) ha origine da ciò che “non-esiste”: il “manifesto” presuppone e trova origine nel “non-manifesto” . La forma è generata dal senza forma, così come la forma porterà al senza forma. Questa “esistenza prima dell’esistenza”, questa potenzialità non ancora espressa, è indicata col termine Dao. Dao è l’inesprimibile, l’inspiegabile, è il “caos” originario, l’unità indifferenziata ma feconda, dal cui ventre nasce la vita.

Quali sono gli schemi della Via cosmica che l’uomo deve riconoscere? La principale caratteristica del Dao è la natura ciclica del suo movimento: l’idea è che nella natura tutti gli sviluppi, sia quelli del mondo fisico sia quelli delle situazioni umane, presentano configurazioni cicliche di andata e ritorno di espansione e contrazione.

Il ritorno è il movimento del Dao
La debolezza è l’efficacia del Dao
I diecimila esseri sotto il Cielo nascono dal «c’è»
E il «c’è» nasce dal «non-c’è»
(Lao Zi,40)


Questa idea fu certamente desunta dalla secolare esperienza della vita contadina, l’alternarsi del giorno e della notte, l’alternarsi delle stagioni, l’alternarsi dei cicli produttivi, ma in seguito fu assunta come regola di vita. I cinesi credono che ogni volta che una situazione si sviluppa fino alle estreme conseguenze essa sia costretta a trasformarsi nel suo opposto; «gli esseri, giunti al culmine, non possono che fare ritorno». Secondo la legge ciclica del Dao, tutto ciò che è forte, duro, superiore, è stato all’inizio debole, molle, inferiore ed è destinato a ridiventarlo.

Il procedimento di comprensione del Dao è a ritroso, «controcorrente» rispetto ad ogni procedura consueta:

Praticare lo studio è sempre più accrescersi
Praticare il dao è sempre più decrescere
Decrescere al di là del decrescere, fino ad attingere al non-agire
Non agendo, non v’è nulla che non si faccia.
(Lao Zi,48)


E’ qui l’esplicita opposizione alla via confuciana, fondata sull’apprendere che è cammini in avanti. Per il Lao Zi praticare il Dao è procedere su un cammino senza cammino per imparare a disimparare.

E’ impossibile parlare del mare ad una rana che abita in un pozzo;
Vive in uno spazio troppo limitato.
E’ impossibile parlare del ghiaccio all’insetto che vive solo d’estate;
Vive in un tempo troppo limitato.
E’ impossibile parlare del Dao ad un letterato;
è limitato dalla ristrettezza dell’insegnamento ricevuto.
(Zhuang Zi , XVII)


Secondo questa legge, non esiste crescita infinita, non esiste sviluppo illimitato, ogni cosa prima o poi ritorna da dove era venuta. In virtù di questa logica naturale, per cui ogni cosa che sale dovrà necessariamente ridiscendere, il fatto di rafforzare un nemico può al limite servire ad affrettane la caduta.

Ciò che si deve chiudere, bisogna prima aprirlo
Prima consolidare ciò che è da indebolire
Prima favorire ciò che è da distruggere
Prima dare ciò che è da prendere
Questa si chiama «visione sottile»
Il molle vince il duro, il debole vince il forte.
(Lao Zi,36)


Questa «visione sottile» è alla base della «tolleranza» taoista, che non ha niente a che vedere con l’amore cristiano né con la compassione buddhista.

Coloro che accumulano sempre più denaro per aumentare la loro ricchezza finiranno con l’essere poveri. La moderna società industriale che cerca continuamente di alzare il livello di vita e così facendo abbassa la qualità della vita per tutti i suoi membri è un esempio eloquente di questa antica saggezza cinese.

Se il Santo del Lao Zi fa il contrario di ciò che si fa abitualmente, non è per calcolo né per desiderio di distinguersi: non è allo scopo di diventare il più forte che si fa umile, ma semplicemente perché la legge naturale di tutte le cose è di andare dal basso in alto e quindi tornare alla fonte. Invece di affaticarsi a nuotare contro corrente, il Lao Zi propone di rientrare nella corrente, di lasciarsi trasportare dall’onda.

Di fatto, ogni volta che la mia azione è volontaria, ogni volta che cerca di «imporre il mio io» andando controcorrente rispetto al corso naturale delle cose, essa dipende dall’Uomo o da ciò che i taoisti chiamano wei (l’agire che forza la natura). Quando l’azione va nel senso delle cose, quando si lascia portare dalla corrente, come il nuotatore che segue il dao dell’acqua senza cercare di imporvi il suo io, essa dipende da ciò che è naturale (ossia dal Cielo o dal Dao) ed è quello che i taoisti chiamano 无为 wu wei (letteralmente il «non-agire», ma meglio «l’agire che aderisce alla natura»). Tutto ciò che nell’uomo è volizione, costruzione, istituzione di distinzioni, non rappresenta che la parte periferica del suo essere: soltanto quando la lascia cadere, l’uomo ritrova il suo proprio centro. Per esemplificare il paradosso il Lao Zi fa ricorso alla metafora dell’acqua.

L’uomo del bene supremo è come l’acqua: l’acqua, benefica a tutti, di nulla è rivale.
Essa ha dimora nei bassifondi, da tutti disdegnati, ed alla Via è assai vicina.
Niente al mondo è più cedevole e più debole dell’acqua
Ma per intaccare ciò che è duro e forte, niente la supera
Niente potrebbe prenderne il posto
Che la debolezza vince la forza
E la mollezza vince la durezza
Non vi è nessuno sotto il Cielo a non saperlo
Benché nessuno lo sappia mettere in pratica.
(Lao Zi,78)

Quindi il «non-agire» non consiste nel «non far nulla» nel senso di incrociare passivamente le braccia, ma nell’astenersi da ogni azione aggressiva, diretta, intenzionale, interventista, al fine di lasciare agire l’efficacia assoluta, la potenza invisibile (de) del Dao. Il Santo è colui che «aiuta i diecimila esseri a vivere secondo la loro natura, guardandosi dall’intervenire»
Per questo, il Santo:


Non si esibisce, e perciò risplende
Non si afferma, e perciò di manifesta
Non si vanta, e perciò riesce
Non si gloria, e perciò diventa il capo
Infatti, appunto perché non lotta,
non c’è nessuno nell’impero che possa lottare contro di lui.
(Lao Zi, 22)


Mentre i confuciani esortano l’uomo ad esaltare la propria umanità, Zhuang Zi lo esorta invece a fonderla con il Dao. Il tema centrale del non-agire conduce così a quello del ritorno alla natura originaria, ritorno all’Origine, al Dao.

L’uomo vero 真人(zhenren), il Santo, è secondo Zhuang Zi, esente da qualunque preoccupazione morale, politica, o sociale, da qualsiasi inquietudine metafisica, da qualsiasi ricerca di efficienza, da qualsiasi conflitto interno o esterno, egli ha lo spirito libero e vive in perfetta unità con se stesso e con ogni cosa. La potenza del Santo è descritta più volte come invincibile, inalterabile, perché è la potenza stessa ,o «virtù» (de) del Dao.

L’utopia taoista spinge, sul piano collettivo, a tornare ad uno stato originario, anteriore alla formazione della società organizzata, esente da ogni forma di aggressione o di costrizione della società sugli individui; un mondo in cui l’assenza di morale, di leggi, di punizioni non indice gli individui ad essere a loro volta aggressivi, e in cui non vi è dunque guerra o conflitto, né spirito di competizione o volontà di dominio.

I taoisti non negano il rapporto dell’uomo con il mondo. Il Santo è colui che semplicemente riesce ad intrattenere tale rapporto senza lasciarsi «reificare dalle cose»: per Zhuang Zi si tratta di liberarsi, di svuotarsi del mondo, ma non per negarlo in nome della sua impermanenza, che è tematica squisitamente buddista. Fondendosi con il Dao, l’uomo ritrova invece il suo centro e non è più ferito da ciò che lo spirito umano considera abitualmente come sofferenza; declino, malattia, morte.


Bisogna accettare le cose, anche se sono senza valore.
Bisogna tenere conto del popolo, per vile che sia.
Bisogna eseguire il proprio compito, anche se non si è sorvegliati.
Bisogna formulare le leggi, nonostante la loro imprecisione.
Bisogna compiere i propri doveri anche se non hanno in sé nessuna attrattiva.
Amare e dispensare il proprio amore, ecco la bontà.
Vivere secondo le prescrizioni senza esserne prigionieri.
Dosare la giusta misura secondo il punto di vista elevato, ecco la virtù.
L’unità che si adatta incessantemente alle mutevoli variazioni,
ecco il Dao.


PS: se qualcuno ha avuto il dubbio, leggendo, che io propenda in maniera faziosa per il pensiero taoista … ebbene ha avuto una giusta intuizione!

giovedì 2 giugno 2011

Rabban Bar Sauma, Il Marco Polo alla rovescia


Preti nestoriani in Cina
Che traffico nel 1200 lungo la via della Seta! I poli di attrazione sono Roma e Pechino, non solo per i mercanti, ma importanti manovre diplomatiche tra le grandi potenze dell’epoca: l’impero mongolo da una parte che, al massimo della sua espansione territoriale, dominava gran parte del Medio Oriente e della Europa dell’Est ed i grandi regni della Europa Occidentale, impegnati con le crociate nella lotta contro i musulmani, guidati più o meno direttamente dai Papi di Roma. In questa grande confusione di armi e di lingue diverse, spiccano le storie di umili personaggi che, con enormi sacrifici personali, attraversarono il mondo conosciuto da un estremo all’altro, per diventare gli ambasciatori dei potenti. Ma la cosa curiosa della storie di questi “messaggeri globe-trotter” è che, da un lato per la lunga durata dei viaggi, e dall’altro per la breve durata della vita media dell’epoca, quasi mai un “postino” riusciva a recapitare il messaggio del “mittente” originario al vero “destinatario”! Ma entriamo nella vicenda romanzesca di Rabban Bar Sauma!

Rabban Bar Sauma (c. 1220-1294) (in cinese:拉宾扫务玛Lā Bīn Sǎowùmǎ), era un monaco nestoriano di Pechino che diventò ambasciatore della fede cristiana in Cina. Egli è passato alla storia per aver tentato un pellegrinaggio dalla Cina, a quel tempo dominata dai Mongoli, fino a Gerusalemme, luogo dove non arrivò mai, perché le vicende della vita lo spinsero in tutt’altra direzione.

Dei nestoriani ne abbiamo già parlato: (vedi :un prete di nome Adamo alla corte dei Tang) Espulsi dall’impero bizantino dopo la condanna per eresia di Nestorio, patriarca di Costantinopoli, i suoi seguaci avevano costituito una chiesa separata in Persia ed in Mesopotamia: a seguito poi della conquista dei musulmani di queste terre, si erano spostati ulteriormente ad est, fino ad arrivare in Cina. Inizialmente accettati dalla dinastia Tang nel VII secolo, furono poi perseguitati e solo qualche piccola comunità sopravvisse nelle province nord-occidentali della Cina, abitate dai turchi uighuri (oggi Xinjiang). I nestoriani avevano ripreso vigore dopo la conquista mongola della Cina nel XIII° secolo, in quanto Gengis Khan (1162- 1227) si era mostrato benevolo verso questa religione ed aveva consentito alle comunità nestoriane di svilupparsi in Cina. In particolare si era convertita al cristianesimo la nuora di Gengis Khan, madre del futuro Gran Khan Kublai.(1215-1294)

Questa era l’ambiente in cui Bar Sauma era nato. Sebbene vivesse a Khanbalik (Pechino) faceva parte della comunità uighura, in altre parole era di origine turca e non cinese. Tuttavia era cresciuto parlando e vivendo in ambiente cinese, per cui possiamo considerarlo “culturalmente” un cinese. Fin da giovane fu attratto dalla locale comunità nestoriana, ed all’età di venti anni abbandonò la sua famiglia benestante e decise di farsi monaco. Visse per molti anni come un asceta in una grotta attirando molti seguaci con la sua spiritualità. («Rabban» infatti è un titolo di rispetto, come «rabbi», «maestro»). Uno dei suoi discepoli preferiti era un certo Markos, con cui - tra il 1275 e il 1280 – elaborò il progetto fare un pellegrinaggio fino a Gerusalemme: ottenne il lasciapassare del Gran Khan, una delle poche garanzie di poter intraprendere un viaggio così lungo ma in gran parte in territori dominati dai mongoli.



Il viaggio di Giovanni da Pian del Carpine
In quegli anni infatti l’impero mongolo aveva raggiunto il massimo della sua espansione: le orde tartare avevano conquistato gli altipiani iranici, annientato i principati russi. Per un anno intero Polonia, Ungheria e Balcani, fino alle coste dell’Adriatico (vedi: Nel 1241 la Cina era veramente vicina), furono devastati dalle truppe del generale Batu. Lo sgomento in Europa era grande, temperato solo dalle notizie delle sconfitte subite dai musulmani ad opera dei mongoli. Il papa Innocenzo IV (che governò la Chiesa dal 1243 al 1254), decise di inviare in Mongolia un legato pontificio, per chiedere al Khan la conversione dei Tartari e la rinuncia alla conquista dell’Europa in vista di una possibile alleanza contro l’islam. La scelta cade sul francescano Giovanni da Pian del Carpine. (vedi: Mission impossibile:il papa Innocenzo IV chiede a frate Giovanni di convertire l'imperatore della Cina) Fra’ Giovanni, partito da Lione, percorrendo più di dieci mila chilometri attraverso la Russia e le steppe dell’Asia Centrale e recando con sé due lettere papali e raggiunse la tenda di Güyük il nuovo Gran Khan dei Mongoli proprio nei giorni della sua incoronazione, il 22 luglio del 1246 (essendo appena morto suo padre il Gran Khan Ögödei, figlio di Gengis Khan: e questo è il primo mancato appuntamento …). La sua missione presso Güyük si rivelò un fallimento: il Gran Khan rifiutò ogni proposta del papa Innocenzo IV e anzi aveva ingiunto al pontefice e a tutti i principi cristiani di sottomettersi alla sua autorità. Fra’ Giovanni tornò molto deluso in Francia: tuttavia, con il suo avventuroso viaggio, aprì la strada a successive spedizioni, compresa quella di Marco Polo, di cui fu precursore di ben quindici anni.

I viaggi dei Polo

Il primo viaggio dei Polo avviene infatti nel 1260 quasi per caso (in realtà “nulla” avviene per caso...). Inseguendo il loro mercato, Nicolò e Matteo Polo (vedi: Marco lo ha raccontato ne il Milione ma il "grande viaggio" è stato pensato da suo padre Nicolò Polo) si erano spinti da Costantinopoli - dove operavano da tempo - fino Bukhara ma da tre anni non riuscivano a tornare a causa delle continue guerre locali. Un bel giorno passano di lì dei messi mongoli che si recavano da Qublai, (Gran Khan succeduto nel frattempo a Güyük), che li invitarono ad unirsi a loro, dato che l’imperatore non aveva mai visto dei “latini” (intendendo probabilmente abitanti dell’Europa meridionale) e sarebbe stato felice di parlare con loro. Dopo un lunghissimo viaggio i Polo arrivarono alla corte di Qublai. Il Gran Khan accolse i due fratelli Polo con tutti gli onori e fece loro molte domande sull’Europa. Diede loro una piastra d’oro che doveva servire da salvacondotto per il viaggio di ritorno e affidò loro una lettera per il Papa in cui lo pregava di mandargli “cento uomini savi, esperti nella religione cristiana, sapienti nelle sette arti“ per convertire la popolazione. Ripartirono nel 1266 arrivando a Roma nel 1269, ma nel frattempo anche il papa Clemente IV° era morto (secondo mancato appuntamento...) ed i Polo dovettero attendere la nomina del nuovo papa Gregorio X° (che avvenne ben tre anni dopo) per poter ripartire per la Cina, questa volta accompagnati dal giovane Marco. Ma invece di cento savi, Gregorio X°, mandò solo due frati autorizzati a ordinare sacerdoti e vescovi, fornendo loro le dovute credenziali e doni per il Khan. Il gruppo si rimise in viaggio ma, spaventati dalle guerre che devastavano quelle regioni, ben presto i frati tornarono indietro.

Ma torniamo a Bar Sauma ed al suo pellegrinaggio: partiti da Khanbaliq poco dopo l’arrivo in Cina di marco Polo, Bar Sauma e Markos risalendo il corso del Fiume Giallo giunsero a Lanzhou. Da lì, presero la via della seta meridionale sotto il deserto del Taklamakan passando Miran e seguendo un percorso lungo il fiume Chenchen per circa 500 miglia raggiungendo Khotan dopo due mesi di cammino. Superato poi Kashgar, Talas, e Tus, la capitale dell’ilkhanato del Khorasan (oggi Afghanistan) si mossero verso Maragheg (oggi Azerbaijan) che era la capitale dell’ il-khanato governato da Hulagu (1217-1265) fratello di Kublai ed arrivarono infine a Baghdad.

La prima parte del viaggio di Bar Sauma

Da Baghdad proseguirono per Tabriz e Ani, e poi si diressero verso le città portuali del Mar Nero. A questo punto gli amici armeni e georgiani li sconsigliarono di proseguire per la terra Santa a causa delle guerre in corso nel sud della Siria tra crociati e musulmani: decisero così di ritornare a Baghdad.

Lì si fermarono per molti mesi e conobbero il patriarca della chiesa nestoriana Mar Denha I°. Il Patriarca, apprezzate le virtù dei due monaci, nominò Markos vescovo metropolitano (una sorta di arci-vescovo nelle chiese orientali) della Cina settentrionale ed affidò loro dei messaggi da portare in Cina nel loro viaggio di ritorno.

Ma le continue guerre nel Medio Oriente impedirono ai due sia di proseguire per Gerusalemme sia di ripartire per la Cina, e durante questo periodo di attesa il patriarca morì. I vescovi nestoriani decisero allora di eleggere patriarca Markos, con il nome di Mar Yaballaha III°. Markos e Bar Sauma andarono quindi a Maragheh per avere l’avvallo del Khan Abaqa alla nomina di Markos. Con il solito tempismo, nel 1282 Abaqa era morto (e tre!) e suo figlio Arghun (1258-1291) era salito al trono.


Arghun col figlio Ghazan in braccio ed il padre Abaqa a cavallo
Arghun è un personaggio centrale in questa storia: pur essendo di religione buddhista, era molto tollerante - come lo erano in generale i mongoli - verso le altre religioni (del resto sua madre, moglie di Abaqa era cristiana). Arghun aveva un progetto ambizioso: voleva stringere un’alleanza strategica con i cristiani di Europa per combattere i loro nemici comuni, i musulmani mamelucchi ed aveva promesso che in caso di conquista di Gerusalemme da parte dei cristiani si sarebbe fatto battezzare. Il nuovo patriarca Mar Yaballaha suggerì ad Arghun di inviare, (indovinate chi?) proprio Bar Sauma come ambasciatore per incontrare il papa di Roma ed i monarchi europei.

E fu così che nel 1287, l’ormai anziano Bar Sauma (aveva la veneranda età di 67 anni: un record per l’epoca!) si rimise in viaggio portando doni e missive da parte di Arghun all’ Imperatore di Bisanzio, al Papa Onorio IV ed ai monarchi di Francia e di Inghilterra. Questa volta nel suo viaggio fu accompagnato da un numeroso seguito: in particolare lo seguì come interprete tale Tommaso d’Anfossi, membro di una famosa società bancaria genovese che operava in Medio Oriente. Bar Sauma che conosceva molto bene il cinese, il mongolo, il turco ed il persiano, non conosceva infatti le lingue europee.

Attraversando l’Armenia giunsero a Trebisonda, ed attraverso il Mar Nero arrivarono a Costantinopoli dove incontrarono Andronico II° Paleologo. Nel resoconto del suo viaggio Bar Sauma fornisce un descrizione entusiastica della bellissima basilica di Santa Sofia.

In seguito, sempre per mare, arrivò in Sicilia, dove assistette alla grande eruzione dell’ Etna del 1287. Risalì poi verso Sorrento, dove era in corso una battaglia navale tra le flotte di Carlo II° e di Giacomo II° di Aragona, re di Sicilia che uscì vittorioso dalla battaglia. Si diresse poi verso Roma dove sfortunatamente non riuscì ad incontrare il papa Onorio IV che era deceduto da poco (e quattro!) Riuscì comunque il nel suo lavoro diplomatico trattando con i cardinali.

Il lungo viaggio di Bar Sauma

Le tappe successive in Italia, nel viaggio verso Parigi, furono la Toscana e Genova, dove si fermò per tutto l’inverno tra il 1287 ed il 1288. Arrivato in Francia, (che lui chiamava «Frangestan») trascorse più di un mese presso il re Filippo il Bello, il quale sembrò rispondere positivamente alle richieste dell’ambasciata mongola, dando a Bar Sauma molti regali per il Khan Arghun ed inviando uno dei suoi nobili, Gobert de Helleville, per accompagnarlo nel suo viaggio di ritorno.

In Guascogna, nel sud della Francia, che a quel tempo era in mani inglesi, Bar Sauma incontrò infine il re Edoardo I° di Inghilterra. Anche lui rispose positivamente alle proposte di Arghun, ma in seguito non fu in grado di aderire all’alleanza a causa dei conflitti in casa sua con i gallesi e gli scozzesi. Rientrato a Roma, Bar Sauma fu cordialmente ricevuto dal neo eletto Papa Niccolò IV , che gli permise di celebrare la propria Eucaristia nella capitale della cristianità latina. Niccolò IV incaricò poi Bar Sauma di una missione presso i cristiani d'Oriente, e gli affidò un diadema prezioso da donare a Mar Yaballaha. Bar Sauma tornò a Baghdad nel 1288 portando con sé messaggi e doni dei vari regnanti europei che aveva incontrato.

La principessa Cocacin

La questione dell’alleanza franco-mongola posta da Arghun Khan non andò a buon fine per vari motivi: ma c’è un’atra curiosa coincidenza. Marco Polo era talmente piaciuto a Kublai Khan, il quale non voleva per nessuna ragione privarsi dei suoi servizi, e lo tenne con sé per diciassette anni affidandogli importanti incarichi: l’occasione per ritornare a casa si presentò nel 1291 quando Qublai ricevette una ambasceria inviata proprio da Arghun, in base alla quale egli chiedeva a Khublai in sposa una principessa. Khublai accettò e affidò ai tre Polo la giovane Cocacin (Kököqin che significa «Dama Celeste»). I Polo partirono l’anno successivo da Zaiton, sostarono in Vietnam, e viaggiarono per il Mare Cinese fino a Sumatra, dove rimasero per cinque mesi. Giunsero a Hormuz dopo un anno decimati dalle malattie e dai pirati. Per capire le difficoltà cui andarono incontro pensate che di oltre 600 persone facenti parte l'equipaggio originario ne sopravvissero solo 18. I tre veneziani conclusero la missione lasciando la principessa a… Ghazan, figlio e successore di Arghun, che nel frattempo era morto (e questa è la più triste!).
Il viaggio di Giovanni da Montecorvino

Sulla scia delle richieste del Gran Khan portate a Roma da Bar Sauma, il papa Nicola IV, primo papa francescano, affidò ad uno dei suoi confratelli frate Giovanni da Montecorvino (vedi: Frate Giovanni da Montecorvino: il primo vescovo di pechino alla corte del Gran Khan) l’importante compito di impiantare delle missioni nell’Estremo Oriente. Erano trascorsi 5 anni dalla sua partenza, quando nel 1294 Giovanni consegnò la lettera del Papa Nicolò IV, ormai defunto, (…) nella quale questi esprimeva il suo più vivo compiacimento per il desiderio del Khan di avere nel suo territorio missionari della Chiesa di Roma. Arrivato a corte, scoprì che purtroppo anche Kublai Khan era appena morto (e questa è l’ultima!) e che Temür Khan (1265-1307) gli era succeduto al trono. Pur non essendo personalmente interessato al messaggio cristiano, il khan concesse a Giovanni di attuare la sua missione: il frate ebbe successo tanto che nel 1306 fu nominato vescovo di Pechino.

Dopo la sua ambasciata in Europa, Bar Sauma , provato probabilmente dagli anni e dalle fatiche di viaggio, visse il resto dei suoi anni a Baghdad dove morì nel 1294. Fu probabilmente in questo periodo che scrisse il racconto di un viaggio, che è stato pubblicato in inglese nel 1928:

I monaci di Kublai Khan, l'imperatore della Cina
ovvero
Storia della vita e dei viaggi di Rabban Sauma,
Inviato e plenipotenziario del Khan mongolo al re d'Europa,
e Markos che come Mar-Yahb Allaha III
divenne Patriarca della Chiesa nestoriana in Asia

Il resoconto scritto dei suoi viaggi è di interesse esclusivo per gli storici moderni, in quanto fornisce un quadro di Europa medievale alla fine del periodo delle Crociate, dipinto da un osservatore profondamente intelligente, spregiudicato e uomo di stato. I suoi viaggi hanno avuto luogo prima del ritorno di Marco Polo verso l'Europa, e i suoi scritti danno un punto di vista opposto a quello di Marco Polo, quello di un orientale che viaggia verso Occidente.



Riferimenti bibliografici

http://en.wikipedia.org/wiki/Rabban_Bar_Sauma
http://www.bookrags.com/research/rabban-bar-sauma-the-reverse-marco--scit-021/
http://www.nestorian.org/rabban_bar_sawma.html