Dao De Jing

Senza uscire dalla porta di casa puoi conoscere il mondo,
senza guardare dalla finestra puoi scorgere il Dao del cielo.
Più si va lontano, meno si conosce.
Per questo il saggio senza viaggiare conosce,
senza vedere nomina, senza agire compie.
Dao De Jing, Lao Zi

giovedì 22 novembre 2012

Guglielmo da Rubruck, il francescano che aprì la via a Marco Polo


Siamo nel 1253: sono passati quasi dieci anni dalla infruttuosa missione di frate Giovanni da Pian del Carpine, inviato dal papa Innocenzo IV fino in Mongolia con l’obiettivo di convertire il Gran Khan alla religione cristiana e porre fine al terrore seminato dalle orde mongole: gli invasori erano giunti, invincibili, in Polonia, Boemia, Ungheria, sino alle coste dell'Adriatico, seminando distruzione e facendo prigionieri cristiani di mezzo continente. Poi si erano improvvisamente ritirati assestandosi nella Russia europea.
Alla morte di Genghis Khan, nel 1227, l'impero da lui costituito era stato diviso tra i quattro figli. Djuci, il maggiore, era già morto ed anche la sua paternità era stata messa in dubbio, così che a suo figlio Batu furono assegnate le terre più lontane tra quelle conquistate, il sud della Rutenia [oggi Bielorussia, Ukraina e Russia occidentale]. Il khanato assegnato a Batu resta noto come Il Khanato dell’Orda d’Oro. Chagatai (secondo in linea di discendenza) era considerato una «testa calda» e aveva ottenuto l'Asia centrale ed il nord dell'Iran. Ögödei aveva ottenuto la Cina ed il titolo del padre, Gran Khan fondando la dinastia Yuan. Tolui, il più giovane, aveva ricevuto le terre natie dei mongoli.
(vedi anche:
Ed ecco che al re di Francia Luigi IX, detto il Santo, [fu infatti canonizzato nel 1297 da Bonifacio VIII con il nome di san Luigi dei Francesi ed è, insieme con santa Elisabetta d’Ungheria, patrono dell'Ordine Francescano Secolare e del Terzo Ordine Regolare di San Francesco] impegnato in Terrasanta alla guida della VII Crociata, giunge la notizia che Sartaq figlio di Batu, si era convertito al cristianesimo:  il papa Innocenzo IV aveva ricevuto notizie in tal senso  da un sacerdote che il Khan gli aveva inviato con delle ambasciate. L’eventualità che i Tartari [così venivano allora chiamati i Mongoli] potessero abbracciare le fede cristiana e quindi diventare dei possibili alleati in funzione anti-islamica era una opportunità strategica per il mondo occidentale. Il re decide quindi di  ritentare l’impresa del papa Innocenzo IV e invia nella lontana Russia, dove si era insediato il khanato dell’Orda d’Oro, Guglielmo di Rubruck, un religioso fiammingo appartenente all’Ordine dei Frati Minori per verificare se tale notizia fosse vera e riproporre loro la conversione (e probabilmente  qualche patto di alleanza).
Guglielmo, che si trovava in Terrasanta assieme al re Luigi, parte quindi nella primavera del 1253  e si imbarca al porto d’Acri alla volta di Costantinopoli, accompagnato dal confratello Bartolomeo da Cremona, un giovane chierico di nome Gosset, un interprete scalcinato di nome Homodei [letteralmente uomo di Dio, traduzione dell'arabo Abdullah]. La sua destinazione era Saraj, la capitale del Khanato dell’Orda d’Oro, sulle rive del basso Volga [nelle vicinanze dell’odierna Volgograd], dove sperava di incontrare Sartaq.
Un viaggio difficile ma non particolarmente rischioso: ma la missione di Guglielmo si rivelerà, come vedremo, più complicata del previsto: il 7 maggio Guglielmo entra nel Mar Nero su una nave di mercanti veneziani con i suoi compagni ed un servo di nome Nicola acquistato a Costantinopoli e un paio di settimane dopo sbarca a Soldaia [Sudak] in Crimea. Uno dei problemi maggiori che Guglielmo incontra è la difficoltà di comunicazione: in Europa il latino era una lingua che consentiva agli uomini colti una facile comunicazione in qualunque zona ma presso i Mongoli invece comunicare è difficilissimo. Già all’inizio del suo viaggio, quando si presenta dal primo capo mongolo per avere il lasciapassare per il viaggio, nessuno capisce il greco in cui è scritta la lettera di richiesta, e devono attendere diversi giorni perché venga tradotta. Ottenuti il lasciapassare e delle scorte per proseguire il loro viaggio verso nord, oltrepassano l’istmo di Perekop [che separa il Mar nero dal Mare di Azov] e si addentrano con carri trinati da buoi nelle steppe del bassopiano sarmatico nel cuore della Russia europea. Il 20 luglio raggiungono la sponda del Don e al di là del fiume incontrano finalmente Sartaq.
Sembra che Sartaq si fosse veramente convertito alla religione cristiana (forse nestoriana); tratta con benevolenza il suo ambasciatore ma dice di non poter accogliere la richiesta contenuta nella lettera del re di Francia e lo consiglia di parlare con suo padre Batu, persona più autorevole, che però si trova in un accampamento un poco più ad est. Guglielmo incassa e lasciati i carri con le sue cose e il servo Nicola da Sartaq, si mette in viaggio verso nord-est, attraversando il Volga all’altezza di Saratov. Nella pianura russa tutto è vasto, enorme, eccessivo. Il Volga è il fiume più grande che abbia mai visto, largo quattro volte la Senna; il Caspio è un lago il cui perimetro è percorribile in quattro mesi di cammino; l’unità di misura consueta per i viaggi, la dieta, ovvero la «giornata di cammino» è insufficiente; spazi infiniti, solitudini immense: si può camminare anche quindici giorni senza incontrare un accampamento o una fonte d’acqua. La regola francescana impone a Guglielmo di non poter maneggiare denaro, che quindi, durante il viaggio, viene affidato a Gosset, e poi all’interprete. Ma Guglielmo scopre presto che il denaro in quei luoghi non serve a nulla, poiché gli scambi avvengono tramite baratto di stoffe e tessuti. A un certo punto restano senza cavalli, e solo dopo che la loro permanenza sul luogo divenne un peso gli fu consentito di proseguire.

Il 6 agosto Guglielmo giunge al campo di Batu, che dista dal Volga circa 3oo Km. Gli accampamenti sono enormi, si estendono per chilometri. Guglielmo si spaventa - expavi dice - quando vede quello di Batu. Ma nemmeno Batu può esaudire le richieste, e propone a Guglielmo di rivolgersi direttamente all’Imperatore Mönke Khan, che si trova però, molto più a est. E qui si comincia ad intuire come va a finire la storia…
Il viaggio sarà di “soli” quattro mesi, e il nostro sarà guidato da una scorta del Khan… purtroppo è settembre e sta per arrivare l’inverno, ma Guglielmo accetta, e si mette in viaggio, separandosi anche da Gosset, che torna da Sartaq. Il viaggio questa volta è più veloce, perché a cavallo, ma con più disagi. Va verso est e attraversa l’Ural procedendo tra le steppe del Kazakistan. Il gruppo devia poi verso sud, dove i mongoli si spostano durante l’inverno, in modo da avere più punti d’appoggio, praticamente assenti a nord in quella stagione. Si immettono quindi nella trafficata via che dalla Persia porta alla Mongolia, e da lì riprendono il percorso verso est. In novembre giungono al bacino del Lago Balqaš e si fermano a Cailac, l’odierna Qailiq. Dal campo di Batu a qui hanno compiuto 3000 chilometri in 69 giorni, il che vuol dire più di 40 chilometri al giorno, che significa 7/8 ore di cavalcata… un ritmo massacrante! Dopo una breve sosta, si mettono nuovamente in viaggio verso est: passano sulle rive del grande lago Alakol, e risalgono i monti del Tarbaghatai; in questo tratto i centri abitati sono rarissimi; costeggiano il fiume Ulungur e attraversano i monti dell’Altaj Nuru. Il 27 dicembre giungono all’accampamento di Mönke Khan; il percorso di 1500 Km è stato compiuto in inverno, tra le montagne e la neve, in 27 Giorni.
Come abbiamo visto, (vedi: mission impossibile:….)frate Giovanni da Pian del Carpine aveva assistito nel 1246 alla incoronazione di Güyük; ma riassumiamo velocemente cosa era successo in quegli anni: dopo la morte del Gran Khan Ögödei, 1241, la madre di Güyük aveva fatto funzioni di reggente fino al 1246 e grazie alla sua intercessione, era riuscita a far nominare Gran Khan il figlio dal Gran Concilio mongolo. Ma Batu, carismatico Khan che controllava gran parte delle forze mongole centro asiatiche ed occidentali, rifiutava fermamente questa risoluzione reclamando il Gran Khanato per sé. La guerra civile era alle porte: Batu stava ripiegando sulla Mongolia con tutte le sue Orde per affrontare colui che dal suo punto di vista era un usurpatore. Güyük però, stanziato in Cina, era morto sulla via di guerra presso l'odierna Xinjiang senza mai affrontare Batu, perito a 42 anni per le conseguenze di un grave alcolismo. [L'alcol ed il suo abuso era un piaga che aveva afflitto tutti i figli di Genghis Khan: vedi in proposito: …]. Alla fine il Gran Concilio aveva nominato Gran Khan figlio di Tolui Möngke, che si era distinto come generale durante le scorrerie in Europa dal 1236 al 1241.

Mönke accoglie benevolmente Guglielmo  e consente che lui e i suoi restino presso di loro fino alla fine dell’inverno; propone anche di risiedere a Karakorum, ma Guglielmo sceglie di restare presso l’accampamento. In quello spazio infinito non ci sono case: i mongoli non hanno casa, e non sanno dove l’avranno domani. L’unica città è Karakorum, un paesetto paragonabile alla cittadina di Saint-Denis, ovunque solo yurte, le tipiche tende dei mongoli che Guglielmo osserva e descrive con ammirazione, senza tuttavia capire come sia possibile che un’intera società possa praticare il nomadismo. Guglielmo resta sgomento per i comportamenti dei mongoli: si intrufolano dappertutto, frugano nei bagagli, toccano ogni cosa; per defecare non si allontanano, e similmente fanno in pubblico varie cose ultra modum tediosa: meglio il deserto che la compagnia di quegli uomini.
Questa è la parte più avventurosa del viaggio, dove Guglielmo farà moltissimi incontri: ambasciatori di popoli tributari; sacerdoti nestoriani e buddisti; sciamani; prigionieri occidentali. Scampa una condanna a morte per aver inavvertitamente toccato la soglia d’ingresso alla tenda del capo; seda miracolosamente una tempesta con le preghiere.
L’incontro più interessante è con l’orafo Buchier: catturato in Ungheria e deportato alla corte di Mönke dove gli viene commissionata la costruzione di una fontana d’oro a forma di albero che eroga bevande. Tuttavia come era prevedibile,  Mönke si comporta come Güyük: non solo rifiuta ogni proposta del re Luigi ma anzi consegna a Guglielmo una missiva di risposta in cui ingiunge  a tutti i principi cristiani di sottomettersi alla sua autorità.
Altra spina nel fianco è l’interprete che accompagna Guglielmo nel suo viaggio: se ne lamenterà in continuazione, e non solo lui. A causa sua la predicazione sarà praticamente impossibile: è pigro, e soprattutto traduce scorrettamente, sicché Guglielmo preferisce non predicare affatto piuttosto che rischiare di stravolgere il messaggio cristiano. Sulla via del ritorno Guglielmo incontra un gruppo di domenicani diretti in Mongolia: li avverte che senza un buon interprete il loro viaggio sarà inutile, tanto che essi deviano verso una sede del loro ordine per un consulto. Nell’epilogo Guglielmo spiega al suo re che, in vista di una futura missione, è assolutamente necessario avere non uno, ma almeno due ottimi interpreti, e molti mezzi, altrimenti la missione sarà inutile. Ma a parte i problemi di comunicazione, anche l'intento di Guglielmo di evangelizzare i mongoli si rivela un totale fallimento: sebbene il nostro partecipi ad una famosa disputa presso la corte del Khan, il quale aveva promosso un dibattito formale fra cristiani, buddhisti e musulmani, al fine di stabilire quale fede fosse quella giusta,  i mongoli non mostrano alcun interesse ai contenuti della fede cristiana.
A proposito degli insuccessi di Guglielmo nella sua opera di evangelizzazione, c’è un curioso aneddoto: un frate chiamato Giacono d’Iseo riferisce di un incidente diplomatico avvenuto presso il Re dei tartari. Giacono dice di aver sentito raccontare questo episodio quando si trovava nel convento francescano di Tripoli da parte di Re Aitone I d’Armenia, il quale a sua volta lo aveva sentito raccontare in territorio mongolo, quando era passato per la corte di un magnus Rex Tartarorum. L’aneddoto parla di un certo frate francescano Guillelmus, qualificato come flandricus e lector, del quale si diceva che fosse stato inviato da re di Francia presso il Khan mongolo. [Guglielmo dice di essere originario di Rubruck, identificato con l’attuale Rubrouck, presso Cassel, nella regione Nord-Pas-de-Calais, al confine con il Belgio, nelle fiandre francesi, ecco perché detto flandricus.] Una volta là, questo monaco aveva fatto una predica dove prometteva il fuoco dell’inferno a chiunque non si fosse convertito. Il Khan, dopo la predicazione, ironizzò dicendo a questo Guillelmus che se voleva avere successo come predicatore, doveva parlare di quanto c’è di bello nella sua religione piuttosto che terrorizzarli con le punizioni. Secondo il racconto di Giacomo d’Iseo, il Magnus Rex mongolo avrebbe usato una similitudine efficace: una nutrice fa cadere nella bocca del neonato delle gocce di latte perché questi, sentendone il sapore, sia invogliato a succhiare, e solo dopo porge la mammella; allo stesso modo Guillelmus avrebbe dovuto convincere il suoi uditori, che nulla sanno di cristianesimo, con argomenti ragionevoli, mentre ha subito minacciato le pene dell’inferno. E Giacomo aggiunge che, in vista di future missioni, sarebbe il caso di evitare questo tipo di atteggiamento. [evidentemente questo frate non ha avuto molto seguito… ].
Oltre a ciò Guglielmo deve prendere atto anche che è fallito l’intento di offrire supporto spirituale alle popolazioni cristiane deportate: solo sei battesimi; a un certo punto un musulmano chiede di essere battezzato, ma cambia idea a causa della strana convinzione che i cristiani non possano bere il comos, convinzione piuttosto diffusa a quanto pare. In realtà pare che, la prima volta che Guglielmo ebbe l’occasione di  assaggiare il cosmos[1], al primo sorso si mise a sudare propter horrorem et novitatem, ma poi gli parve che a avesse un buon sapore, e addirittura si rammaricherà quando in futuro non gli verrà più offerto.
Guglielmo vorrebbe rimanere ancora, ma giunta l’estate Mönke Khan gli ordina di ritornare; Bartolomeo, che è stanco e malato, può rimanere a Caracorum in attesa che parta una carovana e lo riporti indietro più agevolmente. Nel luglio del 1254, Guglielmo quindi riprende la via del ritorno: porta con sé la lettera dove Mönke Khan chiede al re di Francia di sottomettersi.
Il percorso di ritorno è quasi uguale, ma un po’ più settentrionale, dato che in estate i Mongoli si spostano più a nord. Ripassa da Sartaq e in settembre incontra nuovamente Batu, dopo un anno esatto; ritrova Gosset e Nicola; da Karakorum alla riva orientale del Volga dove si trova Batu ci sono 4000 Km, percorsi in 70 giorni. Guglielmo si ferma qui vari giorni: vorrebbe partire per la Terrasanta prima dell’inverno e per un percorso diverso dal quello dell’andata, quindi non passando per la Crimea, dove difficilmente avrebbe trovato una nave, ma passando via terra. In ottobre partono in direzione sud con una guida uigura datagli da Batu. Costeggiano la costa occidentale del mar Caspio fino a Derbend, [la Porta di Ferro] fondata da Alessandro Magno, quindi deviano verso sud-ovest. Verso Natale giungono a Nakicevan (Naxum), in Azerbaigian, dove si fermano per tre settimane. In gennaio ripartono da Nakicevan; si fermano a Shanshé, in Georgia. In febbraio ripartono per Ani, antica capitale Armena. Procedono a tutta dritta verso ovest seguendo la via carovaniera dell’Anatolia; la guida li obbliga a fermarsi a Koyna, capitale del Sultano Rum. In aprile  Guglielmo incontra il sultano a Koyna. Grazie a dei mercanti italiani,  riesce a raggiungere Korykos, città sul Mediterraneo, nella Piccola Armenia o Cilicia, la regione meridionale della Turchia; Da Korycos si reca alla capitale della Piccola Armenia, Sis, dove risiede Costantino, padre del re Het’um I e conferisce con lui; torna sulla costa e si imbarca verso Cipro; In giugno arriva a Cipro e poco dopo sbarca ad Antiochia, nella Terrasanta cristiana. Fine del viaggio. Sono passati due anni e Guglielmo ha compiuto a piedi un totale di 12000 chilometri, il più lungo e avventuroso viaggio di tutto il medioevo, e forse anche il meglio raccontato.

Alla partenza di Guglielmo, Re Luigi si trovava  in Terrasanta, e là Guglielmo pensa di trovarlo; ma una volta rientrato scopre che il Re era già partito per la Francia e chiede al suo superiore di poterlo raggiungere. Il permesso di partire di nuovo gli viene negato e gli viene imposto di legere, cioè tenere lezioni di teologia.
Così nel 1255 Guglielmo inizia a scrivere un rapporto per il Re, incominciando col rimettere in ordine gli appunti che aveva preso durante il viaggio e che costituiscono la struttura principale della relazione, la quale si presenta come un resoconto progressivo di fatti che vengono registrati via via nel loro svolgersi. Così prende forma l’Itinerarium fratris Willielmi de Rubruquis de ordine fratrum Minorum, Galli, Anno gratia 1253 ad partes Orientales. L'Itinerarium è suddiviso in 40 capitoli. I primi dieci contengono osservazioni generali sui mongoli e sulle loro usanze e costumi. I restanti capitoli contengono un sommario delle principali vicende occorse durante il viaggio. Il resoconto è stato messo il 15 Agosto 1255 nelle mani di Gosset il quale lo ha consegnato al Re di Francia.
È questo uno dei capolavori della letteratura geografica medievale, comparabile al Milione  di Marco Polo, nonostante le notevoli differenze fra i due documenti. Guglielmo fu inoltre il primo occidentale che dimostrò che si poteva raggiungere la Cina anche passando a nord del Mar Caspio, anche se tale via era sicuramente conosciuta dagli antichi esploratori scandinavi. Guarda caso, proprio nel 1255 Nicolò e Matteo Polo, padre e zio rispettivamente di Marco, decidono di vendere le loro proprietà, investono il ricavato in gioielli e lasciata Costantinopoli,  si dirigono in Soldania [l'odierna Sudak, in Crimea]: da lì i Polo si spostano nella città di Bolgara, (l'attuale Bolgary a sud di Kazan', sulla riva del Volga) e successivamente raggiungono la città di Buchara, un importante centro di scambi commerciali dell’attuale Uzbekistan, dove rimangono bloccati per tre anni a causa delle guerre in corso: un bel giorno passano di lì dei messi che si recavano da Qubilai, Gran Khan di tutti i mongoli, [succeduto al fratello Mönke nel 1260]. I messi invitano Niccolò e Matteo ad unirsi a loro, dato che, stando al racconto di Marco Polo, il Gran Khan non aveva mai visto dei “latini” (intendendo probabilmente abitanti dell’Europa meridionale) e sarebbe stato felice di parlare con loro. Dopo un anno di viaggio i Polo arrivano a Karakorum alla corte di Qubilai Khan, nipote di Gengis Khan, fondatore dell’impero mongolo.
Karakorum: la antica capitale della Mongolia
Guglielmo era un buon osservatore ed un eccellente scrittore. Egli faceva molte domande durante i suoi viaggi e non prende leggende popolari e favole per verità. Nell’ Itinerarium Guglielmo sfata infatti le leggende diffuse in Occidente sui mostri che popolerebbero le regioni misteriose dell'Asia: nessuna traccia del favoloso regno del Prete Gianni, la cui esistenza in occidente si dava per scontata; nessuna traccia dei mostri di cui tanto si favoleggiava in occidente e nessuno a Karakorum ne aveva nemmeno sentito parlare.
Nel suo resoconto descrisse le curiosità delle popolazioni mongole, corredandole da molte osservazioni geografiche: l'Itinerarium fu il primo trattato che descriveva l'Asia centrale in maniera scientifica. Vi si possono trovare molte note di carattere antropologico e la sua meraviglia nel trovare una presenza così diffusa dell'Islam in aree così distanti. Parlando delle regioni dell’Asia centrale, Guglielmo esclama: «vorrei proprio sapere chi diavolo ha portato la legge di Maometto fin là!».
Della vita di Guglielmo sappiamo poco o nulla. Ogni notizia ci è nota da quanto Guglielmo stesso dice di sé nella sua opera: supponendo che avesse vent’anni quando si mise al seguito del Re, e una quarantina quando iniziò il viaggio, si può supporre una data di nascita intorno al 1210-1215; Conosce bene Parigi, citata spesso: vari paragoni con la Senna e altri luoghi parigini; è molto legato al suo Re, al quale si rivolge con familiarità e che ha seguito in Terrasanta.
È un uomo forte, colto, infaticabile, aperto. Gli interessano gli usi e i costumi dei Mongoli, le persone che incontra, le discussioni che tiene con loro. Rimane colpito dal loro perenne vagare di nomadi, turbato dall'assenza di città, villaggi e case, spaesato negli orizzonti senza fine delle steppe: «Tutto ciò che vedevamo era cielo e terra – scrive - per tutto quello spazio non ci sono né boschi, né alture, né pietre, ma solo ottima erba».
A Guglielmo piace raccontare, e non si vergogna di esprimere le proprie sensazioni e i propri sentimenti. Quando incontra i Tartari ha l’impressione di entrare in un «altro mondo»: tutto è strano e nuovo rispetto a ciò a cui è abituato in occidente, e Guglielmo osserva, si sforza di comprendere, e spesso manifesta lo sgomento di colui che è stato catapultato in un mondo diverso.Vai a: navigazione, cerca
Il testo non ebbe alcuna diffusione nel medioevo e la tradizione antica, rappresentata da sei manoscritti, è esclusivamente di area inglese, come inglese è l’unico lettore medioevale del testo, Ruggero Bacone, che inserì nell’Opus maius degli estratti del testo di Guglielmo. Il resoconto di Rubruck fu in parte tradotto in inglese e stampato da Richard Hakluyt tra il 1598 ed il 1600. La versione completa è stata stampata in francese dalla Société de Géographie a Parigi nel 1893 con il titolo Recueil de voyages et de mémoires. Una edizione critica del testo fu realizzata nel 1929 da Anastasius Van den Wyngaert e inserita nel primo volume dei Sinica Franciscana, raccolta di testi e documenti delle missioni francescane in Estremo Oriente. Una nuova edizione critica del testo latino, corredata da un commento e dalla traduzione completa in italiano, è apparsa nel 2011 con il titolo Viaggio in Mongolia, a cura di Paolo Chiesa, docente all'Università Statale di Milano.
Bibliografia
Guglielmo di Rubruck, Viaggio nell'impero dei Mongoli, traduzione e note di Luisa Dalledonne, introduzione di Gian Luca Potestà, Genova-Milano, Marietti, 2002.
Guglielmo di Rubruck,Viaggio in Mongolia (Itinerarium), a cura di Paolo Chiesa, Milano, Fondazione Lorenzo Valla / Mondadori, 2011.
Sitografia



[1] Ecco come Guglielmo descrive la preparazione del cosmos:  «Dopo aver raccolto una grande quantità di latte di cavalla che, appena munto, è dolce come quello di mucca, lo versano in un grande otre e cominciano a sbatterlo con uno strumento di legno adatto a questo scopo, che nella parte inferiore è grande come la testa di un uomo e scavato internamente, mentre mescolano rapidamente il latte ricomincia a ribollire come il mosto e a inacidire o fermentare e continuano a scuoterlo fino a quando ne estraggono il burro. A questo punto lo assaggiano e quando ha un sapore piccante al punto giusto lo bevono. Mentre lo si beve, il cosmos pizzica la lingua come il vino di raspo e dopo che si è finito di bere rimane in bocca il sapore del latte di mandorla. Il cosmos fa molto bene all'intestino, inebria le persone abbastanza deboli ed è notevolmente diuretico».

venerdì 2 novembre 2012

Il "Viaggio in Occidente" di San Zang


Chiunque ami i racconti di viaggi, non può non conoscere la straordinaria figura di San Zang, monaco pellegrino, vissuto in Cina nel VII secolo durante la Dinastia Tang. Insigne maestro spirituale, dotato di elevata forza d'animo e carisma, San Zang compì una marcia di ottomila chilometri,  lungo la Via della Seta,  per raggiungere il monastero di Nalanda, in India, culla della fede buddhista. Qui rimase diversi anni, studiando accanto ai più sapienti conoscitori della tradizione buddhista, prima di riprendere la strada per la Cina. Nel 645, dopo quasi diciassette anni di assenza, rimise piede nella capitale imperiale. Portava con sé venti cavalli carichi di reliquie religiose donategli dai buddhisti indiani e tre canestri di sūtra, i sacri testi della tradizione buddhista, donde il nome sanscrito con cui San Zang  fu presto conosciuto: Tripiṭaka «tre canestri» (in cinese, appunto, San Zang).

Il resoconto dettagliato dei suoi spostamenti  (Dà Táng Xīyù Jì, Annotazioni sulle Regioni Occidentali ai tempi dei grandi Tang) fu redatto da Bian Ji, un suo discepolo che impiegò più di un anno a trascrivere la dettatura del maestro e rappresenta la prima informazione affidabile per i cinesi riguardo alla geografia e agli abitanti di paesi lontani dell’occidente. Il libro contiene più di 120.000 caratteri cinesi ed è suddiviso in dodici volumi, che descrivono la geografia, i trasporti marittimi e terrestri, il clima, i prodotti locali, le etnie, le lingue, la storia, la politica, la vita economica, le religioni, la cultura e i costumi sociali di più di cento paesi, regioni, città-stato, nell’area geografica che attualmente ospita Xinjiang (Cina), Afghanistan, Tagjikistan, Uzbekistan, Pakistan, India, Bangladesh  e Sri Lanka. Attualmente il testo è di grande interesse per gli storici moderni e gli archeologi: le Annotazioni rappresentano una fonte importante di informazioni sull’Asia Centrale, documentano l’esistenza di una cultura buddhista in Afghanistan e testimoniano l’esistenza, a quel tempo, delle famose sculture dei Buddha di Bamiyan (quelle distrutte recentemente dai talebani) e, per l’esattezza delle descrizioni dei luoghi,  è stato utile negli scavi per il ritrovamento di numerosi siti archeologici in India.

San Zang  era nato nel 602 d.C. a Chen He, un villaggio nei dintorni di  Luoyang, nella provincia cinese dello Henan. La sua famiglia era famosa da secoli per la sua erudizione e Chen Hui (questo era il suo vero nome) era il più giovane di quattro fratelli: un suo antenato, Chen Shi, era stato ministro sotto la dinastia degli Han Orientali; suo nonno Chen Kang, era stato professore all’Accademia Imperiale durante la dinastia dei Qi Settentrinali. Suo padre, confuciano conservatore, era magistrato della contea di Jiangling durante il dominio della dinastia Sui. Fu educato dal padre assieme ai suoi fratelli  secondo lo spirito confuciano: secondo le biografie tradizionali, San Zang  mostrò fin da bambino una intelligenza eccezionale e stupì il padre per la sua scrupolosa osservanza dei riti confuciani fino dalla età di otto anni. Da ragazzo si appassionò allo studio dei Classici confuciani della letteratura cinese ma fu attratto, come il fratello maggiore, anche dalla religione buddhista ed entrò nel monastero  di Luoyang all’età di tredici anni. Dopo la morte del padre, visse con il fratello maggiore Chen Su nel monastero Jingtu di Luoyang per quattro anni, dedicandosi allo studio del buddhismo mahayana. A causa dei disordini sociali e politici che seguirono la caduta della dinastia Sui (618) dovette spostarsi a Chengdu nel Sichuan dove a vent’anni  (622) fu ordinato monaco presso il Tempio dello Splendore Celeste.

Salito al trono l’imperatore Taizong, della dinastia Tang, iniziò un periodo di relativa pace, durante il quale San Zang ebbe modo di viaggiare in lungo e in largo attraverso la Cina alla ricerca di testi sacri buddhisti. Dopo qualche tempo fu trasferito al Tempio del Grande Studio a Chang’an [oggi Xi’an], la nuova capitale dell’impero, in una comunità di monaci che avevano dedicato la loro vita alla traduzione dei Libri Sacri provenienti dall’India. Durante i suoi studi però, ebbe modo di constatare con dispiacere la incompletezza  e la errata  interpretazione della natura delle scritture buddhiste che erano arrivate in Cina. Così si era espresso a  riguardo: «Sebbene il Buddha sia nato  in Occidente, la sua dottrina si è diffusa in Oriente. Nel corso della traduzione, errori possono essere stati inseriti nei testi e parole possono  essere state mal interpretate. Se le parole sono sbagliate, si perde il loro senso e quando una frase viene mal interpretata, la dottrina viene distorta.». Un giorno San Zang ebbe un sogno premonitore e concepì allora l’ardito piano – sulle orme del monaco Fa Xian, che era andato in India due secoli prima alla ricerca di testi sacri buddhisti - di andare anche lui in India a cercare dei testi originali delle scritture da riportare in Cina.


È difficile immaginare un percorso più lungo, accidentato, pericoloso di quello che questo intrepido monaco aveva scelto di percorrere. San Zang era descritto come un uomo alto e bello, di costituzione delicata; elegante nel vestire, educato nei modi, dallo sguardo vivace e dalla voce suadente. Eppure, questo gentile e raffinato studioso non indietreggiò di fronte alla prospettiva di lasciare la sua casa a Luoyang, nella Cina nord-orientale, per mettersi in viaggio alla volta dell'India.

Ma seguiamo le sue avventure come lui stesso ce le racconta nelle Annotazioni: ci soffermeremo in particolare sul suo passaggio lungo la Via della Seta, che ci consente di approfondire la nostra conoscenza di un territorio pericoloso ma affascinante: il bacino del Tarim, che ospita il terribile deserto di Taklamakan, circondato a nord dalla catena montuosa dei Monti Celesti [Tian Shan] e a sud dal massiccio del Kunlun, considerato nella tradizione orientale una “Montagna Cosmica” che simboleggia “il punto che segna il passaggio dal Caos Primordiale all’Ordine”. Un territorio solo apparentemente deserto ed inospitale, che ha visto nei secoli il passaggio di innumerevoli carovane, ma che fu anche la via di ingresso del buddhismo in Cina.

San Zang iniziò il suo pellegrinaggio nel 628, partendo da Chang’an dirigendosi prima a nord-ovest, verso Anxi [nella attuale provincia del Gansu]: di qui la via diventava difficoltosa, dovendo costeggiare l’immenso deserto di Taklamakan, nel bacino del Tarim. Ma a complicare il viaggio di San Zang non c’era solo il deserto: in quei mesi  i cinesi erano scesi in guerra contro delle popolazioni turche ai confini nord-occidentali e l’imperatore Taizong aveva proibito a tutti di muoversi al di fuori dei confini imperiali. Scrive San Zang  in proposito:

«Quando arrivai al confine estremo della Cina, al bordo del deserto di Lop, fui catturato dalle milizie cinesi. Non avendo un permesso di viaggio, volevano rimandarmi al monastero di Dun Huang affinché rimanessi là. Allora io risposi: “Se voi insistete  a trattenermi, vi consento di togliermi la vita ma non farò nemmeno un passo indietro verso la Cina”».

Per fortuna anche l’ufficiale cinese era buddhista e  commosso dalla sua determinazione, lo lasciò passare. Per evitare il successivo posto di blocco, San Zang ebbe la malaugurata idea di abbandonare la pista principale e tentò una deviazione che lo condusse in una zona così aspra e selvaggia che non mostrava alcun segno di vita: non c’erano uccelli in cielo né animali  sul terreno né acqua, né vegetazione. Era esausto per il caldo e per la sete dopo quattro giorni iniziò ad avere terrificanti miraggi di cavalieri fantasma: stava per morire, quando il suo unico compagno, il suo cavallo, seguendo il suo istinto, cambiò improvvisamente direzione e lo condusse in un’oasi dove trovarono acqua e qualcosa da pascolare: la sua vita era salva! Alcuni giorni dopo arrivò a Turfan, dove si riposò per qualche giorno.

Turfan  è stata per lungo tempo un’oasi  fertile (grazie ad un ingegnoso sistema di canali sotterranei, detto karez, che raccolgono l’acqua dai monti circostanti) ed un importante centro commerciale lungo la Via della Seta. Conteso per secoli tra i cinesi e gli Xiongnu fin dai tempi della dinastia Han, Turfan, ai tempi di San Zang era un regno indipendente governato da una tribù di etnia turca. Il re di Turfan, incantato dalla conoscenza del monaco dei sacri libri buddhisti, voleva trattenerlo con sé e rifiutò di dargli il permesso di ripartire: solo quando Xuanzang iniziò lo sciopero della fame, il re, riluttante, gli consentì di andarsene e gli diede delle lettere di credenziali per presentarsi ai governanti delle oasi lungo la strada, fornendogli tutta l’assistenza necessaria per il successo del suo pellegrinaggio.

Proseguendo il suo cammino verso ovest lungo la carovaniera, Xuanzang sfuggì ad una imboscata di predoni e trovò riparo in un monastero buddhista a Kuqa. Scrive San Zang nelle sue note:

«Il terreno in questa zona è adatto alla coltivazione di riso e grano […] si coltiva le vigne, i melograni e numerose specie di susini, peri, peschi e mandorli […] Il sottosuolo è ricco di minerali: oro, rame, ferro, piombo e stagno. Il clima è temperato e le persone si comportano onestamente. La scrittura è simile a quella indiana, seppure con qualche differenza. Superano gli abitanti dei regni confinanti nella loro abilità a suonare il liuto e la pipa. Si vestono con abiti di seta ornati di ricami […] In questa regione ci sono circa cento conventi, con più di 5.000 monaci, che appartengono alla scuola Theravada [Piccolo Veicolo] e Sarvastivada. Le loro regole e la disciplina è simile a quella indiana e i loro testi sono quelli originali..»

La tappa successiva fu Aksu, che descrive come capitale del regno di Baluka: anche di questa regione descrive geografia, clima e usi locali, non dimenticando di elencare minuziosamente i conventi buddhisti incontrati e le loro regole. Tra un’oasi e l’altra il paesaggio è incredibile, sembra di essere in un pianeta sconosciuto: ecco, vicino a Aksu le cosiddette “Colline dai Cinque Colori”…

Da Aksu, invece di proseguire per Kashgar lungo la carovaniera della Via della Seta, prese la via del nord-ovest e, attraversate Montagne Celesti  (Tian Shan) al passo di Bedel, alto 4200 m., che segna il confine tra l’attuale provincia cinese del Xinjiang ed il Kyrgyzistan, arrivò  a Tashkent ed infine a Samarkanda. Nei suoi Appunti scrive: «questa grande città, che governa un potente stato,  è circondata da un muro di sette miglia di circonferenza.  È un paese ricco, che ha accumulato tesori provenienti  da terre lontane, dove si possono trovare cavalli forti ed artigiani esperti e il clima è abbastanza gradevole».

Da Samarkanda San Zang deviò verso sud e superando i contrafforti del Pamir passò il famoso passo Porta d’Acciaio. Continuando il suo viaggio verso sud seguendo il  corso del fiume Amu Darya arrivò a Termez, ai confini meridionali dell’odierno Kyrgyzistan, dove incontrò una comunità di monaci buddhisti che contava più di mille persone.

Entrò poi nell’odierno Afghanistan raggiungendo Kunduz, dove gli capitò di partecipare ai riti funebri del principe locale Tardu, morto avvelenato in una congiura. Proseguì poi per Balkh, per vedere il sito buddhista di Nava Vihara, che è rimasto famoso per essere stato il monastero più ad occidente del modo, al tempo, con più di 3000 monaci. Qui incontrò Prajnakara, un monaco con cui Xuanzang aveva studiato le prime scritture buddhiste, che lo aiutò a trovare il testo Mahavibhasa, che poi, tornato in patria, tradurrà in cinese. Prajnakara lo condusse a Bamiyan, dove San Zang poté vedere le famose statue giganti di Buddha scavate nella roccia.

Dopo questa importante tappa San Zang riprese il suo viaggio verso est e attraversato il passo Shibar, raggiunse la capitale della regione di  Kapisi, [circa 60 Km a nord di Kabul] . Là visitò più di cento monasteri, popolati da 6000 monaci, la maggior parte del rito mahayana ma incontrò anche religiosi indù jainisti: era l’anno 630.

Dalle Annotazioni di San Zang apprendiamo che, al tempo della sua visita, cioè nel 630, nella zona di Balkh c’erano almeno un centinaio di monasteri buddhisti, con 30.000 monaci,  c’era un grande numero di stupa ed altri monumenti religiosi: il buddhismo era quindi fiorente nella porzione bactriana dell’impero turco occidentale.

Attraverso il passo Kyber [che separa l’Afghanistan dal Pakistan] arrivò poi a Peshawar: la città aveva perso molto dell’antica gloria e il buddhismo era in declino nella regione. Peshawar era stata fatta capitale dal re dei Kushan, Kanisha nel II secolo a.C. Dopo poco iniziarono a diffondersi nella zona i missionari buddhisti che stranamente vennero ben accolti dai Kushan (che seguivano la religione di Zoroastro) che integrarono gli insegnamenti buddhisti nella loro religione e gradualmente si convertirono al buddhismo. Peshawar divenne rapidamente un grande centro di riferimento per il buddhismo anche se la religione zoroastriana e l’animismo dei Kushan sopravvissero specialmente nelle aree rurali. Il re Kanisha, diventato un fervente buddhista, aveva fatto costruire a Peshawar quello che sarebbe stato il più alto edificio del mondo a quel tempo, uno stupa gigante, per ospitare le reliquie del Buddha. Il primo riferimento a questo edificio era stato fatto dal monaco pellegrino cinese Fa Xian, che lo aveva visitato nel 400 d.C. e descritto come alto 120 metri e adornato con tutti i materiali preziosi del mondo. Nessuno stupa poteva essere paragonato per bellezza e potenza ad esso. Lo stupa venne distrutto da un fulmine e restaurato più volte, ma quando arrivò San Zang,  nel 634, era ancora integro. Le rovine di questo stupa furono ritrovate nel 1909 dall’archeologo americano  D.B. Spooner grazie alle indicazioni lasciateci da San Zang.

Sorvoliamo la storia del lungo periodo di permanenza in India dove San Zang visitò tantissimi luoghi sacri ed approfondì per anni la sua cultura buddhista: quindici anni più tardi San Zang, ripassava  sulla Via della Seta, ma questa volta in direzione della Cina. Questa volta passò come era d’uso per le carovaniere che andavano in Cina, lungo la pista meridionale del bacino del Tarim, visitando Kashgar, Khotan e Loulan prima di raggiungere Dunhuang: consapevole delle insidie che la carovaniera nascondeva in quella regione, San Zang riuscì  ad attraversare l’immenso deserto e raggiungere Dunhuang  dove depositò i suoi preziosi manoscritti nella biblioteca del monastero presso le grotte dei Mille Buddha di Bezeklik.

Questo complesso, si trova vicino alle antiche rovine di Gaochang, nella valle Mutou, una gola delle Montagne Fiammeggianti [che prendono questo nome dal colore rosso delle rocce di cui sono formate]. Nel sito vi sono 77 grotte scavate nella pietra, tutte decorate con dei murales del Buddha.


Il suo ritorno in Cina  fu un trionfo, poiché la fama e il prestigio guadagnati in terra indiana lo avevano preceduto, e l'imperatore in persona  volle ascoltare dalla viva voce del pellegrino le sue avventure e le sue osservazioni di viaggio. L'imperatore gli offrì persino una carica governativa, ma San Zang, privo di qualsiasi ambizione, preferì dedicarsi agli studi e alla traduzione dei sūtra che aveva portato dall'India e ancora oggi la tradizione riferisce a lui 1338 dei 5084 sūtra che costituiscono il canone buddhista cinese.

La fantasia popolare non tardò a impossessarsi della figura potente e insieme gentile di questo monaco. Su San Zang vennero creati racconti, favole, ballate, i quali confluirono a formare il corpus di una grande tradizione narrativa, tramandata prima oralmente e poi per iscritto. I più antichi di questi documenti risalgono alla dinastia Song. Al periodo Yuan va ascritta una versione teatrale intitolata Xiyouji, appunto «Cronaca di un viaggio in occidente». È questo un classico della letteratura cinese, forse il più famoso tra le giovani generazioni. È stato pubblicato anonimo nel 1590 circa e non ci è pervenuta alcuna prova materiale relativa all'identità dello scrittore, ma lo si attribuisce tradizionalmente all'erudito Wu Cheng’en. Il libro è una riflessione su quanto il buddhismo cinese avesse unito, fondendo aspetti del taoismo e del confucianesimo in Cina. Rappresenta inoltre un vero e proprio percorso di purificazione dei vari personaggi, che alla fine del viaggio giungeranno all'illuminazione. Il romanzo racconta in versione mitizzata il viaggio di un monaco buddhista. Nel romanzo, il monaco Xuan Zang [Hsüan Tsang] (ispirato al personaggio storico San Zang) viene inviato dalla Bodhisattwa Guanyin in India per ottenere le copie di determinati testi buddhisti importanti, non disponibili in Cina. È accompagnato nel suo viaggio da tre discepoli — il re scimmia Sun Wukong, il maiale Zhu Baijiè ed il demone fluviale Sha Wujing i quali decidono di proteggerlo ed aiutarlo nell'impresa per ottenere il perdono dei peccati commessi. Il cavallo del protagonista è invece, in realtà un principe drago, figlio del Re Drago del Mare del Sud. Insieme, combattono i mostri ed i demoni che incontrano lungo il cammino, compreso il Bai Gu Jing, che uccide intere famiglie succhiando l'anima e la vita, ed il demone del ratto, che seduce e uccide i monaci con i suoi artigli.

Uno degli assistenti soprannaturali del monaco, il re scimmia Sun Wukong, è diventato uno dei personaggi più famosi e più cari della letteratura cinese. Il suo grado di popolarità e di riconoscimento in Asia è stato paragonato a quello di Topolino nei paesi occidentali (considerando le sue avventure, il carattere, ed il valore educativo della storia, noi potremmo paragonarlo al nostro Pinocchio). La ragione della popolarità così duratura del romanzo, viene dal fatto che esso è portatore di messaggi a livelli multipli: è una storia di avventura, con parecchi passaggi al comico, e anche una metafora in cui il gruppo dei pellegrini che viaggiano verso l'India corrisponde ad un viaggiare simbolico verso il chiarimento, ad un viaggio interiore verso un livello di educazione più elevato.

Il romanzo è stato preso ad ispirazione per:

·         Monkey: serie umoristica a cartoni animati per la televisione, parodia del Viaggio in Occidente ma è anche un po' più fedele e come tale di difficile comprensione per il pubblico occidentale.

·         Lo scimmiotto, di Milo Manara e Saverio Pisu (Alterlinus, 1976). Versione molto libera della prima parte della storia, che si conclude con l'imprigionamento del re delle scimmie sotto la Montagna dei Quattro Elementi.

·         Dragon Ball: (serie giapponese di manga e anime liberamente ispirata anch'essa al Viaggio in Occidente, ma mentre l'intenzione del testo originale fu di diffondere la nozione di karma in una cultura perlopiù animista e in parte panteista, quella cinese appunto, Dragon Ball si propone invece di diffondere nozioni di panteismo in una cultura agnostica, quale quella occidentale).

Le (poche) traduzioni italiane sono:

·         Lo scimmiotto, traduzione di A. Motti dalla versione ridotta di Arthur Waley del 1942 (traduce soltanto trenta dei cento capitoli), Einaudi, 1960.

·         Il viaggio in Occidente, a cura di S. Balduzzi, Rizzoli,1998.

·         Lo scimmiotto, Adelphi, 2002 (prima edizione 1971).Son Goku - Lo scimmiotto di Pietra, Kappa Edizioni,2005.


Sitografia


http://en.wikipedia.org/wiki/Xuanzang
http://depts.washington.edu/silkroad/texts/faxian.html
http://it.wikipedia.org/wiki/Viaggio_in_Occidentehttp://bifrost.it/Articoli/Sunwukong.html
http://en.wikipedia.org/wiki/Turpan