Dao De Jing

Senza uscire dalla porta di casa puoi conoscere il mondo,
senza guardare dalla finestra puoi scorgere il Dao del cielo.
Più si va lontano, meno si conosce.
Per questo il saggio senza viaggiare conosce,
senza vedere nomina, senza agire compie.
Dao De Jing, Lao Zi

giovedì 22 novembre 2012

Guglielmo da Rubruck, il francescano che aprì la via a Marco Polo


Siamo nel 1253: sono passati quasi dieci anni dalla infruttuosa missione di frate Giovanni da Pian del Carpine, inviato dal papa Innocenzo IV fino in Mongolia con l’obiettivo di convertire il Gran Khan alla religione cristiana e porre fine al terrore seminato dalle orde mongole: gli invasori erano giunti, invincibili, in Polonia, Boemia, Ungheria, sino alle coste dell'Adriatico, seminando distruzione e facendo prigionieri cristiani di mezzo continente. Poi si erano improvvisamente ritirati assestandosi nella Russia europea.
Alla morte di Genghis Khan, nel 1227, l'impero da lui costituito era stato diviso tra i quattro figli. Djuci, il maggiore, era già morto ed anche la sua paternità era stata messa in dubbio, così che a suo figlio Batu furono assegnate le terre più lontane tra quelle conquistate, il sud della Rutenia [oggi Bielorussia, Ukraina e Russia occidentale]. Il khanato assegnato a Batu resta noto come Il Khanato dell’Orda d’Oro. Chagatai (secondo in linea di discendenza) era considerato una «testa calda» e aveva ottenuto l'Asia centrale ed il nord dell'Iran. Ögödei aveva ottenuto la Cina ed il titolo del padre, Gran Khan fondando la dinastia Yuan. Tolui, il più giovane, aveva ricevuto le terre natie dei mongoli.
(vedi anche:
Ed ecco che al re di Francia Luigi IX, detto il Santo, [fu infatti canonizzato nel 1297 da Bonifacio VIII con il nome di san Luigi dei Francesi ed è, insieme con santa Elisabetta d’Ungheria, patrono dell'Ordine Francescano Secolare e del Terzo Ordine Regolare di San Francesco] impegnato in Terrasanta alla guida della VII Crociata, giunge la notizia che Sartaq figlio di Batu, si era convertito al cristianesimo:  il papa Innocenzo IV aveva ricevuto notizie in tal senso  da un sacerdote che il Khan gli aveva inviato con delle ambasciate. L’eventualità che i Tartari [così venivano allora chiamati i Mongoli] potessero abbracciare le fede cristiana e quindi diventare dei possibili alleati in funzione anti-islamica era una opportunità strategica per il mondo occidentale. Il re decide quindi di  ritentare l’impresa del papa Innocenzo IV e invia nella lontana Russia, dove si era insediato il khanato dell’Orda d’Oro, Guglielmo di Rubruck, un religioso fiammingo appartenente all’Ordine dei Frati Minori per verificare se tale notizia fosse vera e riproporre loro la conversione (e probabilmente  qualche patto di alleanza).
Guglielmo, che si trovava in Terrasanta assieme al re Luigi, parte quindi nella primavera del 1253  e si imbarca al porto d’Acri alla volta di Costantinopoli, accompagnato dal confratello Bartolomeo da Cremona, un giovane chierico di nome Gosset, un interprete scalcinato di nome Homodei [letteralmente uomo di Dio, traduzione dell'arabo Abdullah]. La sua destinazione era Saraj, la capitale del Khanato dell’Orda d’Oro, sulle rive del basso Volga [nelle vicinanze dell’odierna Volgograd], dove sperava di incontrare Sartaq.
Un viaggio difficile ma non particolarmente rischioso: ma la missione di Guglielmo si rivelerà, come vedremo, più complicata del previsto: il 7 maggio Guglielmo entra nel Mar Nero su una nave di mercanti veneziani con i suoi compagni ed un servo di nome Nicola acquistato a Costantinopoli e un paio di settimane dopo sbarca a Soldaia [Sudak] in Crimea. Uno dei problemi maggiori che Guglielmo incontra è la difficoltà di comunicazione: in Europa il latino era una lingua che consentiva agli uomini colti una facile comunicazione in qualunque zona ma presso i Mongoli invece comunicare è difficilissimo. Già all’inizio del suo viaggio, quando si presenta dal primo capo mongolo per avere il lasciapassare per il viaggio, nessuno capisce il greco in cui è scritta la lettera di richiesta, e devono attendere diversi giorni perché venga tradotta. Ottenuti il lasciapassare e delle scorte per proseguire il loro viaggio verso nord, oltrepassano l’istmo di Perekop [che separa il Mar nero dal Mare di Azov] e si addentrano con carri trinati da buoi nelle steppe del bassopiano sarmatico nel cuore della Russia europea. Il 20 luglio raggiungono la sponda del Don e al di là del fiume incontrano finalmente Sartaq.
Sembra che Sartaq si fosse veramente convertito alla religione cristiana (forse nestoriana); tratta con benevolenza il suo ambasciatore ma dice di non poter accogliere la richiesta contenuta nella lettera del re di Francia e lo consiglia di parlare con suo padre Batu, persona più autorevole, che però si trova in un accampamento un poco più ad est. Guglielmo incassa e lasciati i carri con le sue cose e il servo Nicola da Sartaq, si mette in viaggio verso nord-est, attraversando il Volga all’altezza di Saratov. Nella pianura russa tutto è vasto, enorme, eccessivo. Il Volga è il fiume più grande che abbia mai visto, largo quattro volte la Senna; il Caspio è un lago il cui perimetro è percorribile in quattro mesi di cammino; l’unità di misura consueta per i viaggi, la dieta, ovvero la «giornata di cammino» è insufficiente; spazi infiniti, solitudini immense: si può camminare anche quindici giorni senza incontrare un accampamento o una fonte d’acqua. La regola francescana impone a Guglielmo di non poter maneggiare denaro, che quindi, durante il viaggio, viene affidato a Gosset, e poi all’interprete. Ma Guglielmo scopre presto che il denaro in quei luoghi non serve a nulla, poiché gli scambi avvengono tramite baratto di stoffe e tessuti. A un certo punto restano senza cavalli, e solo dopo che la loro permanenza sul luogo divenne un peso gli fu consentito di proseguire.

Il 6 agosto Guglielmo giunge al campo di Batu, che dista dal Volga circa 3oo Km. Gli accampamenti sono enormi, si estendono per chilometri. Guglielmo si spaventa - expavi dice - quando vede quello di Batu. Ma nemmeno Batu può esaudire le richieste, e propone a Guglielmo di rivolgersi direttamente all’Imperatore Mönke Khan, che si trova però, molto più a est. E qui si comincia ad intuire come va a finire la storia…
Il viaggio sarà di “soli” quattro mesi, e il nostro sarà guidato da una scorta del Khan… purtroppo è settembre e sta per arrivare l’inverno, ma Guglielmo accetta, e si mette in viaggio, separandosi anche da Gosset, che torna da Sartaq. Il viaggio questa volta è più veloce, perché a cavallo, ma con più disagi. Va verso est e attraversa l’Ural procedendo tra le steppe del Kazakistan. Il gruppo devia poi verso sud, dove i mongoli si spostano durante l’inverno, in modo da avere più punti d’appoggio, praticamente assenti a nord in quella stagione. Si immettono quindi nella trafficata via che dalla Persia porta alla Mongolia, e da lì riprendono il percorso verso est. In novembre giungono al bacino del Lago Balqaš e si fermano a Cailac, l’odierna Qailiq. Dal campo di Batu a qui hanno compiuto 3000 chilometri in 69 giorni, il che vuol dire più di 40 chilometri al giorno, che significa 7/8 ore di cavalcata… un ritmo massacrante! Dopo una breve sosta, si mettono nuovamente in viaggio verso est: passano sulle rive del grande lago Alakol, e risalgono i monti del Tarbaghatai; in questo tratto i centri abitati sono rarissimi; costeggiano il fiume Ulungur e attraversano i monti dell’Altaj Nuru. Il 27 dicembre giungono all’accampamento di Mönke Khan; il percorso di 1500 Km è stato compiuto in inverno, tra le montagne e la neve, in 27 Giorni.
Come abbiamo visto, (vedi: mission impossibile:….)frate Giovanni da Pian del Carpine aveva assistito nel 1246 alla incoronazione di Güyük; ma riassumiamo velocemente cosa era successo in quegli anni: dopo la morte del Gran Khan Ögödei, 1241, la madre di Güyük aveva fatto funzioni di reggente fino al 1246 e grazie alla sua intercessione, era riuscita a far nominare Gran Khan il figlio dal Gran Concilio mongolo. Ma Batu, carismatico Khan che controllava gran parte delle forze mongole centro asiatiche ed occidentali, rifiutava fermamente questa risoluzione reclamando il Gran Khanato per sé. La guerra civile era alle porte: Batu stava ripiegando sulla Mongolia con tutte le sue Orde per affrontare colui che dal suo punto di vista era un usurpatore. Güyük però, stanziato in Cina, era morto sulla via di guerra presso l'odierna Xinjiang senza mai affrontare Batu, perito a 42 anni per le conseguenze di un grave alcolismo. [L'alcol ed il suo abuso era un piaga che aveva afflitto tutti i figli di Genghis Khan: vedi in proposito: …]. Alla fine il Gran Concilio aveva nominato Gran Khan figlio di Tolui Möngke, che si era distinto come generale durante le scorrerie in Europa dal 1236 al 1241.

Mönke accoglie benevolmente Guglielmo  e consente che lui e i suoi restino presso di loro fino alla fine dell’inverno; propone anche di risiedere a Karakorum, ma Guglielmo sceglie di restare presso l’accampamento. In quello spazio infinito non ci sono case: i mongoli non hanno casa, e non sanno dove l’avranno domani. L’unica città è Karakorum, un paesetto paragonabile alla cittadina di Saint-Denis, ovunque solo yurte, le tipiche tende dei mongoli che Guglielmo osserva e descrive con ammirazione, senza tuttavia capire come sia possibile che un’intera società possa praticare il nomadismo. Guglielmo resta sgomento per i comportamenti dei mongoli: si intrufolano dappertutto, frugano nei bagagli, toccano ogni cosa; per defecare non si allontanano, e similmente fanno in pubblico varie cose ultra modum tediosa: meglio il deserto che la compagnia di quegli uomini.
Questa è la parte più avventurosa del viaggio, dove Guglielmo farà moltissimi incontri: ambasciatori di popoli tributari; sacerdoti nestoriani e buddisti; sciamani; prigionieri occidentali. Scampa una condanna a morte per aver inavvertitamente toccato la soglia d’ingresso alla tenda del capo; seda miracolosamente una tempesta con le preghiere.
L’incontro più interessante è con l’orafo Buchier: catturato in Ungheria e deportato alla corte di Mönke dove gli viene commissionata la costruzione di una fontana d’oro a forma di albero che eroga bevande. Tuttavia come era prevedibile,  Mönke si comporta come Güyük: non solo rifiuta ogni proposta del re Luigi ma anzi consegna a Guglielmo una missiva di risposta in cui ingiunge  a tutti i principi cristiani di sottomettersi alla sua autorità.
Altra spina nel fianco è l’interprete che accompagna Guglielmo nel suo viaggio: se ne lamenterà in continuazione, e non solo lui. A causa sua la predicazione sarà praticamente impossibile: è pigro, e soprattutto traduce scorrettamente, sicché Guglielmo preferisce non predicare affatto piuttosto che rischiare di stravolgere il messaggio cristiano. Sulla via del ritorno Guglielmo incontra un gruppo di domenicani diretti in Mongolia: li avverte che senza un buon interprete il loro viaggio sarà inutile, tanto che essi deviano verso una sede del loro ordine per un consulto. Nell’epilogo Guglielmo spiega al suo re che, in vista di una futura missione, è assolutamente necessario avere non uno, ma almeno due ottimi interpreti, e molti mezzi, altrimenti la missione sarà inutile. Ma a parte i problemi di comunicazione, anche l'intento di Guglielmo di evangelizzare i mongoli si rivela un totale fallimento: sebbene il nostro partecipi ad una famosa disputa presso la corte del Khan, il quale aveva promosso un dibattito formale fra cristiani, buddhisti e musulmani, al fine di stabilire quale fede fosse quella giusta,  i mongoli non mostrano alcun interesse ai contenuti della fede cristiana.
A proposito degli insuccessi di Guglielmo nella sua opera di evangelizzazione, c’è un curioso aneddoto: un frate chiamato Giacono d’Iseo riferisce di un incidente diplomatico avvenuto presso il Re dei tartari. Giacono dice di aver sentito raccontare questo episodio quando si trovava nel convento francescano di Tripoli da parte di Re Aitone I d’Armenia, il quale a sua volta lo aveva sentito raccontare in territorio mongolo, quando era passato per la corte di un magnus Rex Tartarorum. L’aneddoto parla di un certo frate francescano Guillelmus, qualificato come flandricus e lector, del quale si diceva che fosse stato inviato da re di Francia presso il Khan mongolo. [Guglielmo dice di essere originario di Rubruck, identificato con l’attuale Rubrouck, presso Cassel, nella regione Nord-Pas-de-Calais, al confine con il Belgio, nelle fiandre francesi, ecco perché detto flandricus.] Una volta là, questo monaco aveva fatto una predica dove prometteva il fuoco dell’inferno a chiunque non si fosse convertito. Il Khan, dopo la predicazione, ironizzò dicendo a questo Guillelmus che se voleva avere successo come predicatore, doveva parlare di quanto c’è di bello nella sua religione piuttosto che terrorizzarli con le punizioni. Secondo il racconto di Giacomo d’Iseo, il Magnus Rex mongolo avrebbe usato una similitudine efficace: una nutrice fa cadere nella bocca del neonato delle gocce di latte perché questi, sentendone il sapore, sia invogliato a succhiare, e solo dopo porge la mammella; allo stesso modo Guillelmus avrebbe dovuto convincere il suoi uditori, che nulla sanno di cristianesimo, con argomenti ragionevoli, mentre ha subito minacciato le pene dell’inferno. E Giacomo aggiunge che, in vista di future missioni, sarebbe il caso di evitare questo tipo di atteggiamento. [evidentemente questo frate non ha avuto molto seguito… ].
Oltre a ciò Guglielmo deve prendere atto anche che è fallito l’intento di offrire supporto spirituale alle popolazioni cristiane deportate: solo sei battesimi; a un certo punto un musulmano chiede di essere battezzato, ma cambia idea a causa della strana convinzione che i cristiani non possano bere il comos, convinzione piuttosto diffusa a quanto pare. In realtà pare che, la prima volta che Guglielmo ebbe l’occasione di  assaggiare il cosmos[1], al primo sorso si mise a sudare propter horrorem et novitatem, ma poi gli parve che a avesse un buon sapore, e addirittura si rammaricherà quando in futuro non gli verrà più offerto.
Guglielmo vorrebbe rimanere ancora, ma giunta l’estate Mönke Khan gli ordina di ritornare; Bartolomeo, che è stanco e malato, può rimanere a Caracorum in attesa che parta una carovana e lo riporti indietro più agevolmente. Nel luglio del 1254, Guglielmo quindi riprende la via del ritorno: porta con sé la lettera dove Mönke Khan chiede al re di Francia di sottomettersi.
Il percorso di ritorno è quasi uguale, ma un po’ più settentrionale, dato che in estate i Mongoli si spostano più a nord. Ripassa da Sartaq e in settembre incontra nuovamente Batu, dopo un anno esatto; ritrova Gosset e Nicola; da Karakorum alla riva orientale del Volga dove si trova Batu ci sono 4000 Km, percorsi in 70 giorni. Guglielmo si ferma qui vari giorni: vorrebbe partire per la Terrasanta prima dell’inverno e per un percorso diverso dal quello dell’andata, quindi non passando per la Crimea, dove difficilmente avrebbe trovato una nave, ma passando via terra. In ottobre partono in direzione sud con una guida uigura datagli da Batu. Costeggiano la costa occidentale del mar Caspio fino a Derbend, [la Porta di Ferro] fondata da Alessandro Magno, quindi deviano verso sud-ovest. Verso Natale giungono a Nakicevan (Naxum), in Azerbaigian, dove si fermano per tre settimane. In gennaio ripartono da Nakicevan; si fermano a Shanshé, in Georgia. In febbraio ripartono per Ani, antica capitale Armena. Procedono a tutta dritta verso ovest seguendo la via carovaniera dell’Anatolia; la guida li obbliga a fermarsi a Koyna, capitale del Sultano Rum. In aprile  Guglielmo incontra il sultano a Koyna. Grazie a dei mercanti italiani,  riesce a raggiungere Korykos, città sul Mediterraneo, nella Piccola Armenia o Cilicia, la regione meridionale della Turchia; Da Korycos si reca alla capitale della Piccola Armenia, Sis, dove risiede Costantino, padre del re Het’um I e conferisce con lui; torna sulla costa e si imbarca verso Cipro; In giugno arriva a Cipro e poco dopo sbarca ad Antiochia, nella Terrasanta cristiana. Fine del viaggio. Sono passati due anni e Guglielmo ha compiuto a piedi un totale di 12000 chilometri, il più lungo e avventuroso viaggio di tutto il medioevo, e forse anche il meglio raccontato.

Alla partenza di Guglielmo, Re Luigi si trovava  in Terrasanta, e là Guglielmo pensa di trovarlo; ma una volta rientrato scopre che il Re era già partito per la Francia e chiede al suo superiore di poterlo raggiungere. Il permesso di partire di nuovo gli viene negato e gli viene imposto di legere, cioè tenere lezioni di teologia.
Così nel 1255 Guglielmo inizia a scrivere un rapporto per il Re, incominciando col rimettere in ordine gli appunti che aveva preso durante il viaggio e che costituiscono la struttura principale della relazione, la quale si presenta come un resoconto progressivo di fatti che vengono registrati via via nel loro svolgersi. Così prende forma l’Itinerarium fratris Willielmi de Rubruquis de ordine fratrum Minorum, Galli, Anno gratia 1253 ad partes Orientales. L'Itinerarium è suddiviso in 40 capitoli. I primi dieci contengono osservazioni generali sui mongoli e sulle loro usanze e costumi. I restanti capitoli contengono un sommario delle principali vicende occorse durante il viaggio. Il resoconto è stato messo il 15 Agosto 1255 nelle mani di Gosset il quale lo ha consegnato al Re di Francia.
È questo uno dei capolavori della letteratura geografica medievale, comparabile al Milione  di Marco Polo, nonostante le notevoli differenze fra i due documenti. Guglielmo fu inoltre il primo occidentale che dimostrò che si poteva raggiungere la Cina anche passando a nord del Mar Caspio, anche se tale via era sicuramente conosciuta dagli antichi esploratori scandinavi. Guarda caso, proprio nel 1255 Nicolò e Matteo Polo, padre e zio rispettivamente di Marco, decidono di vendere le loro proprietà, investono il ricavato in gioielli e lasciata Costantinopoli,  si dirigono in Soldania [l'odierna Sudak, in Crimea]: da lì i Polo si spostano nella città di Bolgara, (l'attuale Bolgary a sud di Kazan', sulla riva del Volga) e successivamente raggiungono la città di Buchara, un importante centro di scambi commerciali dell’attuale Uzbekistan, dove rimangono bloccati per tre anni a causa delle guerre in corso: un bel giorno passano di lì dei messi che si recavano da Qubilai, Gran Khan di tutti i mongoli, [succeduto al fratello Mönke nel 1260]. I messi invitano Niccolò e Matteo ad unirsi a loro, dato che, stando al racconto di Marco Polo, il Gran Khan non aveva mai visto dei “latini” (intendendo probabilmente abitanti dell’Europa meridionale) e sarebbe stato felice di parlare con loro. Dopo un anno di viaggio i Polo arrivano a Karakorum alla corte di Qubilai Khan, nipote di Gengis Khan, fondatore dell’impero mongolo.
Karakorum: la antica capitale della Mongolia
Guglielmo era un buon osservatore ed un eccellente scrittore. Egli faceva molte domande durante i suoi viaggi e non prende leggende popolari e favole per verità. Nell’ Itinerarium Guglielmo sfata infatti le leggende diffuse in Occidente sui mostri che popolerebbero le regioni misteriose dell'Asia: nessuna traccia del favoloso regno del Prete Gianni, la cui esistenza in occidente si dava per scontata; nessuna traccia dei mostri di cui tanto si favoleggiava in occidente e nessuno a Karakorum ne aveva nemmeno sentito parlare.
Nel suo resoconto descrisse le curiosità delle popolazioni mongole, corredandole da molte osservazioni geografiche: l'Itinerarium fu il primo trattato che descriveva l'Asia centrale in maniera scientifica. Vi si possono trovare molte note di carattere antropologico e la sua meraviglia nel trovare una presenza così diffusa dell'Islam in aree così distanti. Parlando delle regioni dell’Asia centrale, Guglielmo esclama: «vorrei proprio sapere chi diavolo ha portato la legge di Maometto fin là!».
Della vita di Guglielmo sappiamo poco o nulla. Ogni notizia ci è nota da quanto Guglielmo stesso dice di sé nella sua opera: supponendo che avesse vent’anni quando si mise al seguito del Re, e una quarantina quando iniziò il viaggio, si può supporre una data di nascita intorno al 1210-1215; Conosce bene Parigi, citata spesso: vari paragoni con la Senna e altri luoghi parigini; è molto legato al suo Re, al quale si rivolge con familiarità e che ha seguito in Terrasanta.
È un uomo forte, colto, infaticabile, aperto. Gli interessano gli usi e i costumi dei Mongoli, le persone che incontra, le discussioni che tiene con loro. Rimane colpito dal loro perenne vagare di nomadi, turbato dall'assenza di città, villaggi e case, spaesato negli orizzonti senza fine delle steppe: «Tutto ciò che vedevamo era cielo e terra – scrive - per tutto quello spazio non ci sono né boschi, né alture, né pietre, ma solo ottima erba».
A Guglielmo piace raccontare, e non si vergogna di esprimere le proprie sensazioni e i propri sentimenti. Quando incontra i Tartari ha l’impressione di entrare in un «altro mondo»: tutto è strano e nuovo rispetto a ciò a cui è abituato in occidente, e Guglielmo osserva, si sforza di comprendere, e spesso manifesta lo sgomento di colui che è stato catapultato in un mondo diverso.Vai a: navigazione, cerca
Il testo non ebbe alcuna diffusione nel medioevo e la tradizione antica, rappresentata da sei manoscritti, è esclusivamente di area inglese, come inglese è l’unico lettore medioevale del testo, Ruggero Bacone, che inserì nell’Opus maius degli estratti del testo di Guglielmo. Il resoconto di Rubruck fu in parte tradotto in inglese e stampato da Richard Hakluyt tra il 1598 ed il 1600. La versione completa è stata stampata in francese dalla Société de Géographie a Parigi nel 1893 con il titolo Recueil de voyages et de mémoires. Una edizione critica del testo fu realizzata nel 1929 da Anastasius Van den Wyngaert e inserita nel primo volume dei Sinica Franciscana, raccolta di testi e documenti delle missioni francescane in Estremo Oriente. Una nuova edizione critica del testo latino, corredata da un commento e dalla traduzione completa in italiano, è apparsa nel 2011 con il titolo Viaggio in Mongolia, a cura di Paolo Chiesa, docente all'Università Statale di Milano.
Bibliografia
Guglielmo di Rubruck, Viaggio nell'impero dei Mongoli, traduzione e note di Luisa Dalledonne, introduzione di Gian Luca Potestà, Genova-Milano, Marietti, 2002.
Guglielmo di Rubruck,Viaggio in Mongolia (Itinerarium), a cura di Paolo Chiesa, Milano, Fondazione Lorenzo Valla / Mondadori, 2011.
Sitografia



[1] Ecco come Guglielmo descrive la preparazione del cosmos:  «Dopo aver raccolto una grande quantità di latte di cavalla che, appena munto, è dolce come quello di mucca, lo versano in un grande otre e cominciano a sbatterlo con uno strumento di legno adatto a questo scopo, che nella parte inferiore è grande come la testa di un uomo e scavato internamente, mentre mescolano rapidamente il latte ricomincia a ribollire come il mosto e a inacidire o fermentare e continuano a scuoterlo fino a quando ne estraggono il burro. A questo punto lo assaggiano e quando ha un sapore piccante al punto giusto lo bevono. Mentre lo si beve, il cosmos pizzica la lingua come il vino di raspo e dopo che si è finito di bere rimane in bocca il sapore del latte di mandorla. Il cosmos fa molto bene all'intestino, inebria le persone abbastanza deboli ed è notevolmente diuretico».

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